Si è concluso ieri 20 agosto il “Campo Internazionale 2023” organizzato come ogni anno dall’Opera per la gioventù Giorgio La Pira presso il Villaggio La Vela di Castiglione della Pescaia.
Vi hanno partecipato un gruppo di quasi 200 giovani provenienti da otto paesi tra Europa, Medio Oriente e Africa, in rappresentanza delle tre religioni abramitiche. Presente anche una delegazione dei Giovani musulmani italiani.
Uniti dalla volontà comune di un cambiamento positivo i giovani hanno intrapreso un percorso di dialogo con l’obiettivo di affrontare le sfide che affliggono la regione mediterranea: “Un mare, molte culture: costruire ponti di pace attraverso il Mediterraneo” il tema del campo.
Ispirati dalla perdurante eredità del professor La Pira e della sua immagine del Mediterraneo come “grande lago di Tiberiade” i giovani hanno intrapreso un’esperienza di vita unica, incentrata su una forte proposta di vita comunitaria alla ricerca di una possibile “identità mediterranea”.
A conclusione hanno redatto il documento finale allegato.
Alcuni ospiti hanno potuto incontrare il Santo Padre a margine dell’udienza generale di mercoledì 9 agosto; hanno visitato il campo l’arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori, ed il vescovo di Grosseto mons. Giovanni Roncari.
Nel percorso di riflessione i giovani sono stati aiutati da docenti e testimoni di rilievo, tra cui il prof. Romano Prodi, già presidente del Consiglio dei Ministri e della Commissione Europea, e la prof.ssa Laura Zanfrini, professore ordinario di Sociologia delle migrazioni e della convivenza interetnica presso l’Università Cattolica di Milano, tra i maggiori esperti italiani di migrazioni internazionali.
Generation Community
Costruire insieme un patto tra generazioni
Siamo giovani provenienti dall’Angola, Bielorussia, Brasile, Camerun, Costa Rica, Repubblica Democratica del Congo, Israele, Italia, Madagascar, Mali, Marocco, Nigeria, Palestina, Russia, Ucraina, Yemen, di differenti culture, età e religioni.
Per dodici giorni abbiamo condiviso un’esperienza di comunità, mettendoci alla prova nel vivere insieme ogni momento e ogni aspetto della vita al Villaggio “La Vela”.
In questo contesto, riflettendo, ascoltandoci e discutendo insieme, siamo riusciti ad ampliare la nostra visione e ad approfondire la nostra idea di “comunità”.
La nostra identità prende forma grazie alle comunità di cui facciamo parte, sia quelle in cui siamo nati che quelle di cui scegliamo di far parte.
In una società sempre più complessa e diversificata, la persona non è più al centro di comunità concentriche, ma la sua identità si trova all’intersezione delle varie comunità di cui fa parte.
Quindi, dobbiamo essere consapevoli delle comunità di cui siamo parte, e del nostro ruolo in esse. Se non siamo consapevoli di dove veniamo, come persone e come comunità, non possiamo riuscire a sapere la direzione verso cui stiamo andando.
La conoscenza è cruciale per capire che le nostre radici ci rendono fermi ma non immobili: sono essenziali per renderci in grado di crescere al nostro meglio. Se vogliamo vivere pienamente le nostre comunità, dobbiamo compiere tre passi: essere parte delle comunità, visto che nessuno è in grado di sopravvivere da solo; sentirsi parte delle comunità, perché i nostri valori e i nostri interessi sono al centro di esse; prendere parte nelle comunità, perché abbiamo la responsabilità di prenderci cura di coloro che condividono questo cammino con noi.
Bisogni e obiettivi condivisi sono ciò che ci aggregano, ma le relazioni basate sulla fiducia sono ciò che creano realmente una comunità. Dobbiamo capire che l’interdipendenza non è una vulnerabilità, ma un’occasione per arricchirci grazie alla costruzione di relazioni e scambi.
Solo attraverso le comunità siamo davvero in grado di curarci e di risanare le fragilità degli individui.
Solo attraverso le relazioni tra le comunità siamo davvero in grado di affrontare le sfide più urgenti, che devono essere affrontate ora perché non colpiscano le future generazioni.
Le comunità sono fatte da e per le persone. Come le persone cambiano, così fanno le comunità, in base al tempo e allo spazio in cui sono inserite. Allo stesso tempo, le comunità mantengono la propria identità a prescindere da chi ne fa parte. Il patto intergenerazionale garantisce l’evoluzione della comunità, che è vitale, senza che venga persa la sua identità lungo il cammino.
Questo è possibile se le comunità tutelano i propri membri. Per farlo, i diritti e gli strumenti politici sono fondamentali (come le costituzioni e i sistemi di welfare); questi strumenti mirano a proteggere quelle situazioni in cui l’equità, l’eguaglianza e la giustizia non sono garantiti. In questo modo le comunità possono proteggere i propri aspetti più vulnerabili.
Per potersi esprimere pienamente, le comunità necessitano di una struttura che dia loro forma, le protegga e permetta loro di crescere nel corso della storia. Per questo motivo, una guida devota, impegnata e responsabile è fondamentale perché i valori espressi convergano con gli interessi perseguiti.
Ciò non significa che solo le guide debbano sentirsi impegnate nello sviluppo delle comunità: ciascuno è chiamato a dare il suo contributo, che non potrebbe essere completo senza la dimensione spirituale e di fede.
Dal momento che la spiritualità è uno degli aspetti più intimi e personali della vita umana, potrebbe spronare la creatività e l’azione nella comunità.
Nello specifico, le tre religioni Abramitiche considerano la cura del vicino, e più in generale della comunità, come un dovere morale e religioso. Abbiamo la responsabilità di prenderci cura dell’altro, perché condividiamo la medesima umanità.
La religione ha un ruolo molto importante che non può essere sostituito o negato dalle società: è una risorsa fondamentale sia per creare e far crescere un’identità individuale sia nel definire le strutture sociali e i valori culturali.
Le sue radici locali e la sua presenza transnazionale rappresentano un’occasione per costruire una comunità inclusiva globale, con una visione di respiro universale. In società propense al secolarismo, il dialogo interreligioso e la scoperta di un nucleo comune non è un’opzione ma una necessità. Quest’azione concertata è il percorso necessario per stabilire un terreno comune su cui costruire un futuro di fratellanza per le prossime generazioni.
DOCUMENTO FINALE – CAMPO INTERNAZIONALE 2018
Le generazioni sono in cammino in un mondo in costante cambiamento. Il progresso tecnologico ha dato vita a molte nuove opportunità e sfide, tuttavia sentiamo la necessità di essere formati per riuscire a fare le giuste scelte ed avere strumenti per navigare nell’eccesso di informazioni a cui siamo sottoposti. Noi, più di 100 giovani provenienti da tutto il mondo, sentiamo l’urgenza di condividere un messaggio di speranza e di impegno attivo nel costruire un futuro di amicizia e pace per l’umanità. Arriviamo dall’Angola, dalla Bielorussia, dal Camerun, dal Congo, dall’Italia, da Israele, dal Libano, dal Mali, dai Territori Palestinesi, dal Perù e dalla Russia. Durante questi giorni abbiamo guardato al futuro, talvolta così spaventoso, che è ciò che siamo chiamati a pensare, costruire e condividere. Pensare e realizzare il futuro comporta la conoscenza delle nostre radici, la consapevolezza delle sfide del nostro tempo e uno sguardo profetico verso il mondo, che sia capace di leggere i segni del tempo e annunciare una nuova primavera.
Negli ultimi decenni, abbiamo vissuto un’ondata di dirompenti cambiamenti, sia sociali che tecnologici, senza precedenti, che hanno ampliato il divario tra le generazioni, rendendo più complessa la realizzazione personale ed economica dei più giovani. Una delle conseguenze di un tale cambiamento è che oggi le generazioni sono chiamate a fronteggiare la sempre più difficile sfida della comunicazione tra loro in un tempo di crescente incomunicabilità. Viviamo in un mondo dove le opportunità si collocano in uno spettro sempre più ampio, così che le esperienze di vita dei più giovani tendono ad essere difficili da comprendere per i più anziani e viceversa. Sebbene da un lato questo permetta agli individui di costruire il proprio Io in maniera più definita, d’altra parte il senso di isolamento e solitudine cresce. L’immediatezza dello stile di vita moderno ha certamente ampliato il divario generazionale e, allo stesso tempo, getta ombre sul ruolo delle generazioni future.
Le generazioni, e le varie identità che di cui queste si compongono, sono chiamate a dover legare il passato con il futuro. Tuttavia, se questo legame è messo in discussione dall’immediatezza, dall’incertezza e dalla mancanza di fiducia, lo sono allo stesso modo le strade per definire le nostre identità. In questa narrativa, che noi rifiutiamo fermamente, l’identità diventa un concetto che divide, che mira ad escludere il diverso e chiunque non appartenga alla stessa realtà. In un tale contesto la definizione di identità individuali e collettive non è più un mezzo per costruire ponti tra il passato, fatto di radici differenti e peculiari, e il futuro dove le differenti radici sono condivise per raggiungere obiettivi comuni. L’identità diventa un’idea monolitica che vive solo nel passato ed è spaventata dal futuro. Noi, generazione giovane, non dobbiamo essere spaventati o tentati da questa narrativa di odio. Al contrario, è urgente che le persone mettano in atto una risposta fatta di responsabilità e visione: responsabilità, per essere capaci di capire e prendersi cura del presente come sfida complessa nelle nostre famiglie e comunità, così come con i nostri amici e vicini; visione, per progettare soluzioni appropriate per il futuro.
Siamo convinti che il coinvolgimento individuale e responsabile e l’attivismo, rappresentino una condizione necessaria e cruciale pietra d’angolo. Tutte le nostre scelte sono, in definitiva, forme di attivismo politico, a partire da quello che compriamo, passando dal tipo di cammino professionale che scegliamo di seguire, per arrivare al modo in cui decidiamo di educare le future generazioni. Tuttavia, siamo consapevoli che questo non può essere sufficiente per fronteggiare le sfide del nostro tempo, le azioni collettive orientate al lungo periodo sono cruciali. Sappiamo che il tempo della sterile autocommiserazione deve finire. Siamo chiamati ad essere responsabili per il futuro, ponendoci un obiettivo da raggiungere e agendo in funzione di questo. Di conseguenza il conflitto tra generazioni e all’interno delle generazioni stesse non può essere più affrontato come un fattore di divisione. Al contrario, esso, rappresenta opportunità per nuove soluzioni che non sono il risultato di decisioni unilaterali ma condivise. Questo sarà possibile soltanto ribaltando la logica della mera contrapposizione di potere nei processi decisionali, così che le decisioni siano basate sull’ascolto reciproco e sulla comprensione.
Questo rappresenta un passaggio fondamentale per pensare a soluzioni condivise che tengano in considerazione il complesso legame tra le generazioni e le relazioni all’interno di esse. Un simile processo non è lineare né di semplice realizzazione poiché è imprescindibile dallo sforzo di diversi componenti della nostra società, ai quali è chiesto di trovare una soluzione condivisa mediante il dialogo. Questo a volte significa essere pronti a realizzare compromessi, per legare il passato al futuro, rinunciando al nostro benessere immediato per raggiungere qualcosa di più grande. Anche se questa linea di pensiero potrebbe sembrare principalmente teorica, siamo convinti che molte delle sfide del nostro tempo possano essere affrontate soltanto attraverso il dialogo e la responsabilità intergenerazionale. L’esempio più paradigmatico è quello delle politiche ambientali che si legano all’idea di futuro che vogliamo trasmettere alle generazioni a venire. Allo stesso modo, le ondate migratorie, le politiche per l’educazione, le riforme sulla sicurezza sociale, i processi innovativi, non possono essere affrontati ciecamente guardando soltanto al consenso elettorale e ai risultati a breve termine. Al contrario, devono essere fronteggiate guardando al futuro e considerando che le scelte che facciamo oggi daranno forma alle nostre comunità per i decenni a venire. Tale prospettiva può essere perseguita soltanto se la fiducia e la speranza permeino la nostra società.
La speranza, in particolare, rappresenta la pietra d’angolo su cui costruire il futuro. La speranza, infatti, presuppone l’essere parte di qualcosa di più grande di noi, che il mondo non è cominciato e non finirà con noi. È stato detto che viviamo in un’epoca di crisi di fede e che le dimensioni spirituale e religiosa sono sempre meno considerate. Noi giovani, durante questo Campo, abbiamo sperimentato uno stile di vita in cui a dimensione spirituale e religiosa sono al centro e ci arricchiscono sia individualmente che come comunità, in particolare grazie al dialogo tra differenti tradizioni e religioni.
Il messaggio di speranza proprio delle religioni e tradizioni Abramitiche diventa sempre più cruciale nel nostro tempo. Per questo, noi giovani generazioni appartenenti a differenti religioni e tradizioni, ci impegniamo a testimoniare il messaggio di pace e di speranza che appartiene alla nostra fede, lottando contro la narrativa che propone le religioni come un mezzo di violenza e separazione. Al contrario, le religioni sono e per sempre devono rimanere un luogo per l’incontro e il dialogo, per affrontare assieme le sfide che ci si pongono dinnanzi. In questo senso, viene alla mente l’immagine di Isacco ed Ismaele, che nonostante la loro separazione, si incontrano a Mamre nel ricordo del padre Abramo (cfr. Gen. 25, 9).
Infatti, le religioni Abramitiche rappresentano il perfetto paradigma per il dialogo e la relazione intergenerazionale: radicati nel passato e sempre con lo sguardo verso il futuro. In questo senso, fin dal principio fu detto: “L’uomo lascerà suo padre e si unirà a sua moglie” (Gen. 2, 18). L’apertura al futuro, la consapevolezza di essere parte di qualcosa di più grande di noi, la fede in Dio e nelle generazioni future sono aspetti di fondamentale importanza per noi, giovani credenti. Se perdiamo il nostro sguardo pieno di speranza verso il futuro, ci esponiamo al rischio che gli estremismi utilizzino la religione per nascondersi dal futuro: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt. 13, 52). Sperare significa anche essere aperti al mistero, a qualcosa che non riusciamo a comprendere. Come il Corano ci insegna, quando Ismaele incontra Abramo dopo un lungo periodo, Ismaele è rispettoso e devoto verso il padre ed è aperto alla richiesta di Abramo, anche se non è in grado di comprenderla: “Poi, quando raggiunse l’età per accompagnare [suo padre questi] gli disse: “Figlio mio, mi sono visto in sogno, in procinto di immolarti. Dimmi cosa ne pensi”. Rispose: “Padre mio, fai quel che ti è stato ordinato: se Allah vuole, sarò rassegnato” (Corano 37, 102). Le religioni, con il loro messaggio di speranza, si compongono di futuro e di radici, differenze e riconciliazione nel nostro comune padre, Abramo. Noi, generazioni giovani del mondo, siamo chiamati a diffondere con cura i semi di speranza, a coltivarli con pazienza e lasciare alle future generazioni il compito di raccoglierne i frutti.
Siamo stati parte di una esperienza dove i ponti vincono sui muri, dove la memoria incontra la visione profetica di un futuro di pace e dove la speranza ha l’immagine del nostro nuovo amico e fratello. Ci sentiamo fortunati e riconoscenti per il dono che ci siamo fatti a vicenda e ci impegniamo a preservare, condividere e mettere in pratica “lo spirito della Vela” nelle nostre famiglie, con i nostri amici e comunità, nei nostri paesi di origine per costruire assieme il nostro futuro di speranza e di pace.
DOCUMENTO FINALE – CAMPO INTERNAZIONALE 2017
Negli ultimi anni il mondo ha conosciuto un cambiamento radicale, e le nostre modalità di comunicare gli uni con gli altri, sia nei contenuti che negli strumenti, è stato rivoluzionato. Noi giovani del Campo Internazionale stiamo camminando insieme per comprendere cause e prospettive di una evoluzione così radicale nelle nostre relazioni e comunicazioni.
I nuovi strumenti tecnologici ci hanno dato un potere inedito nel raccogliere e condividere informazioni, nel comunicare gli uni con gli altri, e in molto altro. Ciononostante, per farne l’uso migliore dobbiamo essere consapevoli dei rischi che comportano, e affrontarli. Questo processo è ancora in corso, e le sfide sono perciò molte, ed è vitale porre le giuste domande, dato che le questioni sono ancora in via di trasformazione. Quindi, per evitare ogni tipo di giudizio, riteniamo più utile mettere in luce e dare una nuova prospettiva di queste sfide.
Uno dei cambiamenti più pervasivi è rappresentato da social media, su cui la nostra attenzione si è focalizzata di più durante il Campo. Molte persone rischiano di diventare soggetti passivi piuttosto che attivi nell’uso dei social media. La loro identità è sempre di più plasmata dai contenuti e dai network dei social, mentre la dimensione di comunicare se stessi e le proprie prospettive agli altri sta perdendo di importanza. Infatti, nell’ambito dei social, dove essere visti significa esistere, le identità virtuali rappresentano maschere di chi vogliamo essere.
D’altro canto, per essere soggetti attivi – anche in questo nuovo contesto – dobbiamo essere fedeli a chi siamo ed ai nostri valori. Questo è l’unico modo in cui possiamo davvero comunicare qualcosa di autentico, generando di conseguenza relazioni autentiche. In più, è fondamentale riconoscere che la nostra identità è in costante evoluzione, ed è definito dal nostro background culturale e sociale, quindi riconoscere le differenze che comunque esistono tra di noi può rivelarsi la chiave di volta della comunicazione.
Considerato come i social network siano un luogo di incontro virtuale, e come agiscano come filtro tra la vita virtuale e quella reale, non possono essere considerati strumenti comunicativi neutri. Possono avere un forte impatto e una grande influenza sulla nostra prospettiva, ed è ovvio che dobbiamo essere consapevoli delle differenze tra questi due mondi. Per esempio, nella relazione faccia a faccia la maggior parte di ciò che viene detto rientra nella comunicazione non verbale, che rimane però assente da dietro uno schermo. Quindi, soppesare le nostre parole è fondamentale, dato che rappresentano il maggior strumento comunicativo sui social. Quello che è stato detto finora rende chiaro che non possiamo separare così facilmente la nostra vita virtuale da quella reale. L’educazione all’uso dei social media quindi rappresenta sotto questo punto di vista la sfida più grande. Non c’è una modalità standard per approcciarsi a questi media, dato che questa dipende dalle nostre personalità e dal nostro background, ma possiamo tracciare alcune linee guida per aiutarci. Perché ho bisogno di condividere questo contenuto? Sto solo cercando attenzione o approvazione? C’è davvero bisogno dell’informazione che sto condividendo? È vera?
Sotto questo punto di vista, educare alla ricchezza delle diversità è fondamentale per evitare odio e violenza verso chi ha opinioni e background diversi. Le nostre comunità vanno diversificandosi, e il dialogo è perciò essenziale se vogliamo crescere insieme.
I social media hanno un impatto anche sulla cittadinanza e sulle dinamiche democratiche. Amplificano le notizie, le opinioni e le reazioni agli eventi a livello globale. Emozioni istantanee sono alla ribalta e influenzano profondamente la comprensione di cosa succede nella società, mentre il ragionamento e l’analisi profonda sono lasciate sullo sfondo.
Questo esempio evidenzia la polarizzazione della società: ognuno di noi può scegliere chi seguire, cosa condividere e dove raccogliere informazioni, permettendoci di rinforzare le nostre credenze. Se usati in questo modo, i social media diventano scudi, non strumenti di condivisione.
L’informazione si ottiene anche con la condivisione di contenuti tra pari, mentre il ruolo dei soliti guardiani è diminuito. Di conseguenza, la loro autorevolezza è messa in pericolo, così come l’abilità di distinguere il vero dal falso. Non è per caso che l’importanza delle fake news nelle dinamiche dei social è cresciuta esponenzialmente e molte persone non riescono o non sono interessate ad affrontare il problema.
Un problema connesso è rappresentato dalla mancanza di pluralismo che i social media possono generare. Infatti, anche se in teoria i social network aumentano il numero delle fonti a disposizione, siamo meno esposti ad una pluralità di opinioni. Questo aumenta le divisioni e le incomprensioni all’interno della comunità ad ogni livello (famiglie, comuni, nazioni, comunità globale).
Perciò, serve sottolineare il ruolo della responsabilità personale di ciò che succede nei social media: dato che ognuno di noi è diventato guardiano della qualità dell’informazione e della democrazia, dobbiamo assumerci le conseguenze delle nostre azioni virtuali così come facciamo con quelle “reali”. Questo permette di proteggere la dimensione della memoria e della prospettiva, messa in pericolo in un mondo in cui l’unica cosa che conta è il momento presente, mentre ciò che è successo ieri è già dimenticato e quello che succederà domani è trascurato.
Nel recuperare e proteggere queste dimensioni, le tradizioni religiose e spirituali hanno un’enorme importanza.
La nostra dimensione religiosa e spirituale ha bisogno di tempo e di ascolto per permetterci di vedere il futuro come parte del nostro cammino e non solo come una reazione immediata a ciò che succede, cogliendo le sfumature di un evento in maniera armoniosa. Sia nella tradizione biblica che in quella coranica, Dio invita il Suo popolo ad ascoltare ed a leggere: “Shema Israel!” (cfr. Deuteronomio 6, 4-7 e Corano 112); “Iqraa’!” (cfr. Corano 96:1).
Oggi abbiamo a che fare con qualcosa di diverso: i nuovi media tendono a diffondere parole di odio attraverso le religioni, dando terreno fertile ai fondamentalisti. In fondo, questi ultimi sono gli individui che parlano – o gridano – di più di Dio, ma allo stesso tempo sono quelli che parlano di meno con Dio, usando la religione come uno strumento di comunicazione e azioni violente.
Essi testimoniano una religione priva di Dio, senza fede. Ma Dio non grida; come ha detto una volta un saggio, “Dio è talmente umile che parla solo quando tutti gli altri tacciono”. Per questo motivo, ci impegniamo a riscoprire il silenzio per riconoscere il sussurro di Dio nel vento, come il profeta Elia sull’Oreb (1 Re 19, 12-13).
Noi, giovani partecipanti al Campo Internazionale del Villaggio “La Vela”, riconosciamo il nostro dovere di comunicare quello di cui abbiamo fatto esperienza sulle religioni e sulla fede. Non sono strumenti di guerra e conflitto, ma che invitano ad amare i vicini e i lontani: “Muteranno le loro spade in aratri e le loro lance in vomeri; una Nazione non solleverà la spada contro un’altra, né si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Isaia 2, 4).
Noi, seguaci delle religioni abramitiche, abbiamo avuto l’opportunità di incontrarci, abbiamo scoperto diversi approcci alla fede, e abbiamo condiviso anche speranze, paure, fragilità e difficoltà. Abbiamo capito ed esperito che l’unica via significativa di comunicare la nostra religione comporta l’essere testimoni trasparenti e coerenti della nostra fede.
Questo è quanto abbiamo compreso, il nostro impegno e il messaggio di speranza che noi, riuniti da paesi differenti, vogliamo diffondere qui e nel resto del mondo. Siamo oltre cento giovani di religioni diverse, provenienti da Albania, Angola, Bangladesh, Bolivia, Repubblica Democratica del Congo, Ecuador, Germania, Israele, Italia, Marocco, Palestina, Perù, Romania, Russia, Yemen.
Con questo documento ci impegniamo a portare nel mondo le modalità di comunicazione e dialogo che abbiamo vissuto ed esperito al Villaggio “La Vela”, così da costruire tutti insieme un sentiero di pace, sulla base di un terreno comune di ascolto e rispetto; una comunità di uomini e donne di buona volontà in cui le parole non sono mai usate come armi per ferire ma come mani tese per unire assieme le nostre diversità; una famiglia umana in cui siamo capaci di riconoscerci come fratelli e sorelle.
Camminare la Terra, Custodire la casa comune
La Terra è la nostra casa comune. Durante il Campo Internazionale, noi giovani provenienti da tutto il mondo abbiamo sperimento il significato di camminare sulla stessa Terra. Proveniamo da Angola, Bolivia, Israele, Italia, Marocco, Palestina, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Ucraina e dopo aver condiviso dieci giorni a La Vela, abbiamo compreso che, se vogliamo andare veloci, dobbiamo andare soli, ma se vogliamo andare lontano, dobbiamo camminare insieme.
Vivendo l’esperienza del Campo Internazionale e condividendo le nostre riflessioni, siamo diventati consapevoli del fatto che tutte le dimensioni umane: personale, politica e spirituale, sono strettamente collegate le une con le altre. Dunque, il solo modo possibile per affrontare le questioni ambientali è un approccio integrale e sistematico. La sola possibilità che abbiamo di poter lasciare il mondo come un posto migliore di come lo abbiamo trovato consiste nell’esser creativi e trovare appropriate soluzioni sulla base di un apprendimento ed educazione reciproci.
Su questa linea, il primo passo da compiere consiste nel riconoscere la bellezza della natura intorno a noi, elemento centrale nel metodo educativo di Pino Arpioni, per cui la bellezza della natura svela la bellezza e l’armonia dell’uomo. Infatti vivere circondati da questa bellezza ci fa interrogare sul nostro ruolo e la nostra posizione nel grande libro della storia e perciò crea le basi per una responsabilità intergenerazionale. Spesso ignoriamo le conseguenze delle nostre azioni sull’ambiente, ma comprendiamo bene il bisogno etico e morale di prendersene cura. Dunque è fondamentale essere lungimiranti nell’educare noi stessi e le generazioni future ai passi da compiere per incrementare la nostra generale consapevolezza. Infatti, dobbiamo riconoscere che siamo parte di qualcosa di più grande e più importante di noi e quindi non possiamo semplicemente dominare e dare per scontata la bellezza e l’armonia dell’ambiente. Al contrario, dovremmo ricercare una relazione equilibrata tra noi e l’ambiente. Ciò richiede una responsabilità sia personale che collettiva per prendersi cura di ciò che ci è stato donato.
Oggi, data la complessa congiuntura economica, sociale, culturale e geopolitica, il bisogno di trovare o re-instaurare tale equilibrio sembra essere più forte che mai. Ad esempio, in questo contesto vale la pena citare la vanità dei modelli di sviluppo consumistici e la “società dello scarto”: consumiamo molto più di quanto abbiamo bisogno, senza prestare attenzione all’impatto sociale del nostro consumo. Per evitare il rischio di diventare una società di questo tipo su scala globale, che nonostante l’apparente progresso significherebbe infatti un compromesso al ribasso, dobbiamo concentrarci sulla nostra responsabilità collettiva. Come disse Giorgio La Pira, tutti noi abbiamo una “vocazione sociale” a cui dobbiamo rispondere collettivamente.
Dunque, non c’è distinzione tra l’impegno personale, locale e globale: essi infatti si completano a vicenda. Perciò, nel trattare i cambiamenti climatici, l’umanità necessita un approccio comprensivo e coerente: gli accordi internazionali tendono a fallire senza sistemi locali per il riciclaggio e viceversa. Inoltre, la distanza tra questi due livelli può essere colmata da forti e adeguate istituzioni che coinvolgano tutti gli attori rilevanti e gli stakeholder. Ognuno di questi deve essere flessibile, innovativo e pensare fuori dagli schemi.
L’insieme di strumenti politici per arginare il cambiamento climatico è particolarmente esteso: vanno dal comunicare il sapere scientifico all’opinione pubblica al marketing “ecologico”, consumo sostenibile, limitare l’uso della plastica, investire in ricerca e sviluppo insieme alla cooperazione internazionale. L’uso di questi strumenti e l’attuazione delle rispettive politiche rappresentano le pietre angolari per proporre un nuovo e concretamente praticabile approccio economico, dove il welfare non è misurato da prezzi di mercato ma dal reale valore ecologico di beni e servizi.
Come rappresentanti delle tre religioni Abramitiche vogliamo rifarci al nostro comune Padre spirituale che fu scelto per stabilire l’alleanza con Dio. Abramo riuscì, sperando contro ogni speranza, a porsi di fronte e riconoscere la realtà delle cose, senza rimanere schiavo di nessun idolo. Se vogliamo seguire il suo esempio, affrontando le tematiche ambientali, non dobbiamo essere forviati da interessi meschini e attitudini egoistiche.
Le confessioni religiose hanno preso una chiara posizione nel contemporaneo dibattito ecologico solo recentemente, tuttavia non dobbiamo dimenticarci che custodire e coltivare il creato è un aspetto che si risale alle radici delle tre religioni. Infatti, tutte le tre religioni abramitiche hanno sempre posto particolare attenzione sul ruolo dell’uomo come custode della natura. Questa comune base morale può permetterci di approfondire il dialogo e la cooperazione tra le tre religioni.
Noi, giovani generazioni, supportate dalla nostra fede, forza morale e ispirati da questa esperienza al “Villaggio La Vela”, ci impegniamo a proseguire insieme questo cammino: distruggere gli idoli della modernità e rendere questo mondo un luogo di dialogo, tolleranza, pace e libertà.
INTERNATIONAL CAMP 2015
#CITYING THE WORLD
UNIRE LE CITTÀ PER UNIRE LE NAZIONI
Le città sono i mattoni della nostra civiltà. Sia per la nostra vita quotidiana che per la genesi storica dell’umanità, la dimensione delle città ha sempre avuto una massima importanza. Per il nostro attuale livello di sviluppo, questo argomento assume perfino più valore. Noi giovani dall’Albania, Angola, Bielorussia, Brasile, Ecuador, Francia, Israele, Italia, Marocco, Nigeria, Palestina, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Siria, Yemen ci siamo riuniti al Villaggio «La Vela» per discutere del ruolo della città e del suo posto nella società contemporanea. In un’atmosfera amichevole, serena e disponibile, con un atteggiamento rispettoso, avvicinandosi con mente aperta, abbiamo condiviso non soltanto i nostri pensieri e le nostre esperienze riguardo a questo tema, ma di fatto abbiamo anche vissuto nel nostro Campo Internazionale all’interno di una «città» multinazionale, multiculturale e multireligiosa.Storicamente, molti filosofi si sono interrogati sul concetto di città ideale e sulla possibilità di realizzarla. Secondo noi, l’unico modo possibile per raggiungere questo scopo è creare città che siano a misura d’uomo. Le città possono essere viste come un libro costituito da simboli e segni, con significati profondi e differenti; città «a misura d’uomo» implica che i cittadini siano in grado di leggere questo libro e arricchirlo di un valore aggiunto. Le città non sono fatte solo di pietra, ma sono principalmente incarnate dalle persone. Quindi, mantenere la città viva richiede una partecipazione attiva a tutti i processi che costituiscono la sua stessa esistenza: d’altra parte, le città devono provvedere ai propri abitanti dando loro l’opportunità di soddisfare i loro bisogni primari. Dal momento che le case sono la base per la creazione delle prime comunità e delle relazioni fra cittadini, le città devono garantire un posto per tutti. Allo stesso tempo, le città sono responsabili del benessere delle persone, e quindi non possono fare a meno di includere fra i servizi l’assistenza sanitaria effettuata dagli ospedali. Le piazze invece, come punto di incontro, permettono di sviluppare e di allargare queste relazioni fra le persone e farle agire per il bene della società. Le istituzioni politiche e amministrative hanno il compito di dare forma a queste attività e di portarle avanti attraverso canali rappresentativi e ufficiali. Comunque, per essere cittadino attivo, è necessaria una formazione che a sua volta giustifichi il funzionamento di scuole e università. Un altro elemento fondamentale è essere consapevoli della propria identità, radicata nei siti storici e culturali della città. Solo la conoscenza del nostro passato ci consente di guardare al futuro e trovare un equilibrio fra tradizione e innovazione. Religione e fede come parte integrale della stessa identità trovano espressione nei luoghi di culto, dove è possibile percepire lo spirito della città.Le città non sono autoreferenziali, perché trovano completa realizzazione solo se creano legami con le loro pari. La comunicazione è più forte della pietra o dei monumenti. Nell’attuale situazione geo-politica, caratterizzata da un confronto ancora in corso fra attori a livello sia globale che locale, l’interazione fra le città può essere considerata come un importante strumento per raggiungere la pace. Per citare il professor La Pira, «I regni passano, le città rimangono» [Giorgio La Pira, Leningrado, 1970]. In questo contesto, è utile menzionare il fatto che talvolta la «diplomazia cittadina» può essere efficiente in situazioni in cui la diplomazia ordinaria tende a fallire. È per questo che strumenti come l’istituzione del gemellaggio fra città, conferenze internazionali di sindaci, programmi di scambio fra studenti, ecc. hanno un grande potenziale come tracciato secondario e come «soft power»; nonostante ciò, questi mezzi sono realmente efficaci solo se c’è un’effettiva partecipazione dei cittadini, e se non rimangono solo un legame formale fra istituzioni.La vita delle città deve riflettere tutti gli aspetti dell’identità dei suoi abitanti: le città devono prendersi cura della dimensione personale dei cittadini attraverso una formazione che li renda consapevoli del loro ruolo attivo nella comunità; devono creare le premesse e l’ambiente sociale appropriato per una cooperazione e un dialogo reciprocamente benefici; infine, non dovrebbero essere considerate solo terreno per relazioni umane ma anche punto di convergenza dell’esperienza multiforme della ricerca spirituale e religiosa. Dovrebbero essere riprogettate considerando il percorso umano verso Dio: perciò, le città devono accogliere, integrare, includere differenti forme di fede e religioni, in linea col principio di una concordia multinazionale, multiculturale e multireligiosa. Vogliamo vivere in una realtà dove le città non siano governate dalle religioni, ma dove le religioni siano rispettate e considerate come una parte integrativa della vita della città e del cittadino. Non possiamo negare che coloro che credono portino una prospettiva differente alla sfaccettata società in cui viviamo, data la loro percezione della città come espressione di uno schema divino e non solo un luogo costruito dagli uomini per gli uomini.Crediamo che le città abbiano ancora il potenziale per essere protagoniste in uno scenario mondiale, ma solo se abbracciano alcuni aspetti centrali della loro natura essenziale e innata: dovrebbero essere in grado di servire come ponti sia fra di loro che fra le persone che vi abitano. Le città dovrebbero essere realtà dinamiche e resilienti, capaci di mantenere la loro identità e allo stesso tempo di confrontarsi e di accogliere tradizioni, culture, religioni diverse. Come ha detto Jane Jacobs, «Le città sorde, inerti contengono i semi della propria distruzione. Ma le città vivaci, diverse, intense, contengono i semi della loro rigenerazione, con l’energia sufficiente a portare i problemi fuori da se stesse» [Jane Jacobs, 1961].In quanto giovani, con la presente vogliamo evidenziare il fatto che il nostro primo impegno in una città è sentirsi coinvolti e responsabili per le necessità e i problemi della stessa. Prima di tutto, è fondamentale percepire il luogo in cui viviamo come la casa di cui dovremmo prenderci cura: se pensiamo alla città come a un mosaico, ogni singola persona ha il dovere di dare un contributo unico e insostituibile. Ciò che abbiamo vissuto qua al Villaggio «La Vela» ci offre l’opportunità di implementare concretamente la nostra esperienza, facendo testimonianza e ripetendo nelle nostre città le esperienze del «vivere insieme» con persone di differenti culture e religioni, come semi di un nuovo processo di integrazione, amicizia e pace fra persone, città e nazioni.
CAMPO INTERNAZIONALE 2015 #CITYINGTHEWORLD: UNIRE LE CITTÀ, UNIRE LE NAZIONI Città a misura d'uomo Per sua stessa natura, l'uomo amplia costantemente la propria sfera delle necessità, modificando l'ambiente circostante in modo che questo sia in grado di soddisfare i sempre nuovi bisogni che, col progredire dell'età personale e di quella storica, si presentano. Fra queste necessità figura la socialità, intesa come il bisogno connaturato di formare comunità e di vivere in relazione con i propri simili. Dalla prima comunità che è il nucleo familiare, questa si è progressivamente espansa, arrivando ad allargarsi fino a forme più ampie come lo Stato, gruppi di persone notevolmente vasti che si riconoscono in una base etnica, culturale, linguistica e/o religiosa comune. La dimensione della città rappresenta probabilmente l'anello di congiunzione più rilevante tra la micro-comunità della famiglia e la macro-comunità dello Stato, ambiente in cui l'uomo ha la possibilità di aprirsi a realtà anche radicalmente diverse dalla propria, senza però abbandonare la propria identità. La città è poi pensata per essere in se stessa specchio dell'uomo che la abita, con le sue strutture che riflettono i bisogni del cittadino: l'affettività trova spazio nella casa, la necessità di realizzarsi e di stare in salute rispettivamente nel luogo di lavoro e nell'ospedale, la tensione religiosa nel luogo di culto, il desiderio di contribuire alla vita politica della propria comunità nel palazzo comunale. Così intesa, la città non è altro che polis, manifestazione fisica e concreta della volontà comune dei propri cittadini, luogo in cui le differenze personali e collettive possono incontrarsi, capirsi e trovare modi nuovi per convivere nel rispetto reciproco. Quanto questa visione rispecchia la realtà cittadina in cui viviamo? Come percepiamo la nostra città, il nostro paese, la nostra comunità? Dal 2009, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero di persone che abitano le città è superiore a quello di chi vive nelle campagne, apice di un processo di urbanizzazione che ha coinvolto ormai il 54% della popolazione mondiale. Una simile crescita della realtà cittadina porta inevitabilmente a rimettere in discussione la natura ed il senso del vivere nella città, a fronte di un crescente divario culturale, sociale ed economico che esiste all'interno delle città stesse fra le varie fasce di popolazione. Il diffuso individualismo finisce poi col sacrificare l'idea stessa di collettività all'interno di ogni forma comunitaria, città compresa; il risultato è una nuova tendenza, che vede nella stessa il luogo della solitudine e dell'isolamento. Come vivo, personalmente, la relazione con la mia città e con i suoi abitanti? Quanto mi sento parte di una collettività, e quanto invece tendo a isolarmi? Individualmente, ciascuno di noi ha un potere ed una portata limitati nella risoluzione di determinati problemi, ed un'azione efficace è garantita solo da un impegno comune e da una profonda e consapevole cooperazione. L'impegno sociale, così come quello politico, diventano strumenti unici per vivere attivamente la dimensione della città: il volontariato nell'associazionismo religioso o laicale, o il lavoro all'interno degli organi politici istituzionali, sono veri e propri servizi attraverso i quali il singolo si inserisce in maniera più viva e vera all'interno della propria counità. Mi impegno all'interno della mia comunità di appartenenza? Come? La dimensione politica delle città Anche le singole città possiedono una propria vocazione, più o meno consapevole: una città d'arte, una città di mare, una città di frontiera, ognuna di esse ricopre un preciso ruolo nel panorama mondiale, e i rispettivi cittadini sono chiamati ad aiutare la propria città a scoprirlo e realizzarlo. La vocazione di una città è, in certa misura, anche la sua identità: come un dialogo fra individui si basa sulle rispettive differenze e sul desiderio di scoprirsi l'un l'altro, così l'identità delle singole città permette a queste di entrare in relazione in un vero e proprio dialogo globale in cui il contributo di tutti è essenziale. La crescente globalizzazione ha creato occasioni uniche di conoscenza e dialogo, con la potenzialità di creare una cultura comune mai così aperta. Le città del mondo sono diventate i luoghi in cui può e deve formarsi una cultura da cittadini del mondo: anche per questo, la città non può più essere vissuta o percepita come un recinto in cui rifugiarsi, anzi, essa diventa un luogo in cui aprirsi al mondo. Occorre pianificare un luogo di apertura culturale e religioso, economico e lavorativo, occorre lavorare da un punto di vista politico, sostenere relazioni (tra associazioni, tra istituzioni, tra università, tra aziende, tra persone) che portino il mondo a incontrarsi all’interno della nostra città. Ti riconosci in questa visione delle città? Quali pensi possano essere gli strumenti per costruire relazioni fra città diverse? Le relazioni tra città e mondo come presentate dal processo di globalizzazione portano in sé un grande potenziale, ma anche, paradossalmente, il rischio di chiudere le città al dialogo. Come sottolineava Saskia Sassen, la creazione della “città globale” rischia di forzare l'evoluzione da Città a Metropoli, ambiente capace di intrecciare relazioni di vario tipo a livello mondiale, ma che finisce con l'essere sradicata dal proprio contesto locale. In reazione, molte città, preoccupate di mantenere le rispettive identità, si chiudono a qualsiasi forma di confronto e dialogo come forma estrema di protezione, in un'autoreferenzialità persino più dura che in passato. Come percepisco questo rischio della globalizzazione? Esistono altre prospettive di dialogo fra le città? La dimensione religiosa delle città Fra le dimensioni umane coinvolte dalla realtà cittadina non è esclusa quella religiosa: molti centri urbani sono nati proprio attorno a luoghi di alto valore spirituale (un tempio, un monastero, un santuario, una montagna o un fiume considerati sacri, ecc). Proprio per questo, fin dall'inizio della sua esistenza, la città ha sempre visto la compresenza, più o meno pacifica, di due poli ugualmente importanti ed influenti: quello politico e quello civile. Di più, la città in quanto tale porta con sé un profondo valore spirituale, diventando spesso un soggetto capace di dialogare con Dio come e più dell'individuo stesso, specie nelle religioni abramitiche, in cui la città diventa luogo principe in cui Dio incontra il proprio popolo. Così, nell'ebraismo Gerusalemme diventa il simbolo stesso della religione e dell'identità ebraiche, la “Città di Dio” che si fa incarnazione del legame fra il credente e il suo Signore (“Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra, mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia” Sal 136,5-6). Nel cristianesimo, l'immagine di Gerusalemme viene ripresa e trasfigurata in una realtà del tutto spirituale, apocalittica, che mantiene però la sua funzione di luogo di incontro con Dio (“Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo [...] Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed Egli sarà il Dio-con-loro!” Ap 21,2-3). Nell'islam la città ha un grande valore spirituale, non solo luogo di incontro fra Dio e i credenti, ma segno dell'amore e della cura del Signore per loro, un dono che ha la funzione di unire i fedeli, di dare loro un'identità, un'appartenenza comune, e protezione (“Ignorano forse che abbiamo dato loro una Terra Santa, mentre tutto attorno la gente è depredata?” XXIX,67). Qual è l'identità religiosa della mia città? Come la vivo? Come la città è luogo privilegiato per l'incontro con Dio, però, essa può anche diventare luogo degli idoli, in cui l'uomo fugge da Dio e si allontana da Lui seguendo altre preoccupazioni e altri richiami. Lo stesso luogo sacro, che spesso è segno di appartenenza e identità per un migrante o uno straniero che ritrova in esso una “parte di casa”, rischia di diventare semplice “museo” nella città, opera d'arte che perde il suo senso e il suo valore originali. La città che si fa metropoli, poi, impone un ritmo accelerato e frenetico ai propri abitanti, rendendo di fatto difficile, se non impossibile, trovare il tempo, il silenzio e il raccoglimento necessari alla preghiera. Nel mio vivere la città, che spazio ha la dimensione religiosa? La città può essere luogo di vicinanza con Dio, o mi distoglie invece dal mio rapporto con Lui?
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CAMPO INTERNAZIONALE 2014
GENERAZIONI IN CAMMINO: ATTIVISMO, RICERCA E SPIRITUALITÁ NEL NUOVO MILLENNIO
In un mondo complesso e in continuo cambiamento, scosso da importanti eventi che modificano l’equilibrio geopolitico di determinate aree, sentiamo l’impegno che le generazioni che ci hanno preceduto non hanno conosciuto a questi livelli. Questo impegno ci chiama ad essere attivi su scala globale, non limitati da confini nazionali o da culture, società e religioni differenti. Siamo giovani provenienti da Albania, Angola, Camerun, Costa d’Avorio, Gabon, Israele, Italia, Marocco, Palestina, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Ucraina, Yemen, studenti e lavoratori che hanno condiviso al Villaggio “La Vela” giorni di discussione e di divertimento in un’atmosfera di amicizia e dialogo. L’interazione aperta, sincera e diretta di cui abbiamo fatto esperienza durante questo Campo Internazionale ci ha portato ad analizzare importanti argomenti riguardanti l’attivismo giovanile, visto non solo come azione fine a se stessa, ma come una responsabilità fondamentale cui vogliamo dedicarci. L’attivismo come lo concepiamo è uno sforzo comune che richiede una base forte e solida, e un’ampia preparazione. La curiosità, che ne è parte integrante, è un’eredità istintuale della natura umana: per usarla saggiamente, è necessario saper vedere più lontano, fare attenzione anche a situazioni, culture ed eventi che vanno oltre la nostra immediata vicinanza. Il principale ostacolo per questo tipo di curiosità è l’indifferenza, alimentata dal consumo continuo e superficiale di prodotti mass-mediali; allo stesso tempo, il possibile accesso a una grande quantità di notizie può e dovrebbe portarci ad aprirci veramente alle sofferenze degli altri, creando forti incentivi che ci portino a prenderci cura gli uni degli altri in molti modi diversi. Per procedere su questa strada, dobbiamo essere consapevoli che un semplice guardarsi intorno è solo il primo passo, lontano dall’essere sufficiente in termini di attivismo responsabile. Infatti, questo richiede un approccio più razionale, che può essere riassunto nella formula “conoscenza attraverso apprendimento”. Questo tipo di conoscenza, essenzialmente diversa da quella accademica, pretende un coinvolgimento e una continua formazione personale. I risultati di quest’ultima, una volta condivisi, diventano informazione per le nostre comunità. Oggi nuovi strumenti tecnologici, in particolare i social media, ci permettono di facilitare questo processo, garantendo accesso a un’incredibile quantità di informazioni. Comunque, la rivoluzione digitale costituisce anche un rischio, dato che può dare un falso senso di partecipazione, nascondendo l’indifferenza dietro al click di un “mi piace”. Da un lato la responsabilità dovrebbe essere considerata motore importante di un attivismo vero e costruttivo, dall’altro è anche una delle sue conseguenze principali. Riguardo questa relazione di causa ed effetto, essere in grado di intervenire su determinate situazioni ci permette di scegliere liberamente la linea di azione che preferiamo, rendendoci così responsabili per ciò che facciamo e per ciò che non facciamo. Questa responsabilità dovrà essere anche più sentita per chi ricopre posizioni di leadership a tutti i livelli e indipendentemente dall’area competenza. A ogni modo, non solo i leader, ma tutti dovrebbero sfruttare questo approccio per cercare e selezionare gli strumenti adatti a raggiungere obiettivi più importanti, facendo tutto il possibile per limitare l’uso della violenza. A proposito degli strumenti dell’attivismo, occorre ricordare che possono assumere diverse forme a seconda delle dimensioni essenziali della vita umana, ovvero personale, sociale e politica. Riguardo la dimensione personale, acquisire conoscenza ha ancora una volta un’importanza centrale nella formazione di uno stile di vita attivo e responsabile: a tal proposito, la ricerca può essere considerata lo strumento primo e centrale richiesto come base di ogni possibile azione, anche la scoperta di ulteriori strumenti. Lo spostamento verso un impegno sociale comincia col condividere la conoscenza acquisita attraverso la ricerca: questa è l’educazione. Insegnare ed educare sono i mezzi principali attraverso cui è possibile formare gruppi capaci di pensiero critico, seguendo le orme di modelli delle generazioni passate, ma capaci di adattarli a una mutevole condizione storica. Sia attraverso il volontariato, il lavoro in gruppi o associazioni o semplicemente con il proprio lavoro, la percezione delle proprie azioni come un servizio per la comunità piuttosto che come mezzi per raggiungere un certo obiettivo distingue un attivismo socialmente orientato da una crociata egoistica, individualistica e auto-glorificantesi. Fra tutte le possibili attività, la politica dovrebbe essere considerata per definizione un servizio alla comunità, indipendentemente da standard sempre più bassi causati dalla corruzione dei singoli individui. Essere attivi positivamente in politica non vuol dire solo esprimere il proprio dissenso votando, protestando, manifestando, promuovendo e firmando petizioni etc.; è anche uno stimolo a partecipare alla politica istituzionale nello sforzo di riportarla alla sua nobiltà originale. Nonostante la comprensibile e diffusa paura di non essere in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati o di non essere all’altezza del compito, crediamo fermamente che una vocazione così importante non debba essere ignorata né che debba dipendere dalla sicurezza di un risultato tangibile. La base inevitabile per quanto detto è una profonda spiritualità, una bussola etica e morale che ispiri e guidi le nostre azioni. A partire da questa definizione, è facile capire che la spiritualità non è qualcosa che appartiene solo alle religioni, ma è un ponte tra credenti e non credenti, un tesoro di valori condivisi che porta le persone a prendersi cura l’uno dell’altro. Questa dimensione interiore ci fornisce l’energia e la volontà necessarie ad abbandonare il nostro istintivo egoismo, così che possiamo aiutare gli altri senza alcun interesse personale. Da un punto di vista religioso l’attivismo non è percepito solo come una serie di fatti concreti. Fuggire dal mondo cercando la contemplazione assoluta non deve essere considerato in sé una buona opzione, dato che può anche essere un rifiuto verso ogni forma di attività piuttosto che una decisione consapevole e sentita. Vogliamo comunque sottolineare che la preghiera in sé è una forma di attivismo, un intervento concreto capace di influenzare un cambiamento in meglio. Alla fine, partendo da una base religiosa, abbiamo bisogno sia della vita contemplativa che della vita activa, la spirituale e la pratica: abbiamo bisogno sia di Giosuè sul campo di battaglia, che di Mosè che alza le sue mani al cielo. In quanto giovani provenienti da ogni parte del mondo, sentiamo comunque l’urgenza di impegnarci nella direzione della pace. Per questo abbiamo simbolicamente firmato, in occasione del suo 50esimo anniversario, la dichiarazione finale della Conferenza Internazionale della Gioventù per la Pace e il Disarmo: “Le generazioni nuove di tutti i popoli della terra convenute a Firenze alzano dalla terrazza di Palazzo Vecchio il loro sguardo pieno di speranza verso le nuove frontiere storiche del mondo – le frontiere della pace, dell’unità, della libertà, della elevazione spirituale e civile di tutte le genti – e si impegnano di attraversarle insieme e di costruire insieme la nuova, universale, pacificata e fraterna casa degli uomini”. Così facendo, ci impegniamo ad aderire agli stessi principi che hanno guidato i giovani radunati da Giorgio La Pira a Firenze, profondamente convinti che il mondo abbia bisogno del contributo di tutti e ciascuno di noi per costruire un futuro di pace e giustizia. Castiglione della Pescaia, 16 Agosto 2014