Europa: un progetto politico di pace


da Prospettive 149
terzo trimestre 2014

“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con
sforzi creativi, proporzionali al pericoli che la minacciano.
Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può
apportare alla società è indispensabile per il mantenimento
delle relazioni pacifiche. […]
L’Europa non potrà farsi in una volta sola, né potrà essere
costituita tutta assieme, essa sorgerà da realizzazioni concrete
che creino innanzitutto una solidarietà di fatto”
Dichiarazione Schuman, 9 maggio 1950

La parola “crisi” è ormai diventata una delle più usate ed abusate del vocabolario comune, tutto ci sembra enormemente ed irrimediabilmente in crisi: l’economia, la società, la famiglia, le istituzioni, i rapporti interpersonali. Associare la parola “crisi” all’Europa è ormai poco più che una banalità, quasi una frase fatta: crisi dell’Eurozona, crisi del processo di integrazione europea e così via. Sentiamo dunque la necessità di riflettere sull’Europa e sulla sua “crisi”, di coglierne le peculiarità e di immaginare soluzioni creative per superarla. Alla ormai generalizzata denuncia della crisi non ha fatto seguito – infatti – una riflessione costruttiva sull’Europa nè sulle motivazioni stesse che stanno a fondamento di questo progetto. È invece proprio questo l’elemento da porre alla base di qualunque analisi: l’aspirazione di pace che porta con sé il progetto dell’Europa unita. Quando nel 1950 Schuman, ministro degli esteri francese, pensava a “realizzazioni concrete che creino innanzitutto una solidarietà di fatto” aveva in primo piano la produzione e il commercio comune del carbone, allora fonte primaria di approvvigionamento energetico, e dell’acciaio, principale materiale dell’industria bellica. Il messaggio era fortissimo: da strumento di offesa e violenza la produzione del carbone e dell’acciaio diventa strumento per il benessere e la sicurezza dei popoli europei. Siamo di fronte ad un vero e proprio tornante della storia: popoli che si fanno la guerra da secoli (almeno 3 guerre devastanti nei precedenti 80 anni) desiderano vivere in pace. Questo desiderio necessitava di essere trasformato in progetto politico: ossia di mettere a servizio di questo quelle realizzazioni concrete di cui parlava Schuman. Queste realizzazioni non dovevano però chiudersi ed esaurirsi nella contingenza dei problemi del tempo, ma portare con sé il seme del nuovo, delle nuove sfide che l’uomo si sarebbe trovato ad affrontare nei decenni futuri, delle nuove forme sociali e giuridiche che si sarebbero rese necessarie per affrontare tali sfide. Questo appare oggi largamente disatteso, ed è qui che inizia la crisi: dall’incapacità di dare coerente sviluppo al desiderio di pace espresso chiaramente dai politici, ma prima ancora dai popoli, europei all’indomani della seconda guerra mondiale.
Come ricorda La Pira: “La crisi è cosa semplice. Il diritto è come un vestito: voi dovete proporzionarlo al corpo che esso è chiamato a coprire. Quando questo diritto diventa un vestito che non è più proporzionato al corpo, succede la rivolta, si sfascia ogni cosa. Le realizzazioni concrete di cui parlava Schuman sono – infatti – ben presto diventati assunti ideologici. La definizione di un’area di libero scambio e libera circolazione è diventata fine del processo di integrazione europea, rendendolo miope, incapace di costruire sulle solide basi gettate dai padri fondatori. Questa incapacità persiste ancora oggi, e porta a conseguenze sempre più gravi in un momento di profonda crisi economica. È in questo percorso che deve necessariamente inserirsi la nostra riflessione sull’Europa di oggi, una riflessione che vuole andare oltre la superficiale dicotomia tra europeisti e antieuropeisti, ma che dopo aver constatato la validità storica delle premesse di pace che sottendono la stessa idea di Europa, denunciato l’incapacità di una costruzione coerente a quelle promesse, si metta alla ricerca di quelle soluzioni nuove e creative che permettano di costruire pace sulla base di nuove realizzazioni concrete adatte alle esigenze e alle sfide di questo nostro tempo. Questa sarà forse la più grande sfida della generazione dei giovani di oggi, una sfida non più rinviabile o delegabile. Questa sfida richiede un approccio giovane: “I popoli giovani, le generazioni giovani, hanno un potenziale religioso che è di immenso valore creativo per la storia del mondo, un grande sforzo di preghiera, pensiero ed azione perché il progetto di pace nato dopo la seconda guerra mondiale possa portare frutto, dentro e fuori dall’Europa. La prima, grande, sfida da affrontare è quella dell’identità. Dopo gli ultimi trattati di riforma tutti i cittadini di Stati Membri dell’Unione sono anche Cittadini Europei, ma a questa forma giuridica non corrisponde la consapevolezza di una comune identità europea. Questo si riscontra sia nel dibattito pubblico, sia nelle scelte politiche, dove troppo spesso prevale l’interesse della singola nazione a discapito di altri popoli. La sfida è quella di educarci ad essere europei, come amava ripetere Jean Monnet: “Far lavorare gli uomini assieme gli mostrerà che dietro le loro differenze e i confini geografici, giace qualcosa di comune”. Questo non può significare uniformarci ad un modello dominante, ma cogliere gli elementi che ci accomunano, i tre “colli” su cui la cultura europea poggia: l’Acropoli, il Campidoglio e il Golgota. A fronte di queste comuni radici, le differenze culturali e sociali che si sono sviluppate in quasi due millenni di storia non sono più un ostacolo alla condivisione, né il motivo di scontri; ma diventano la vera ricchezza di un modello unico nella storia delle forme organizzate di convivenza. Infatti il progetto di unificazione europea non trova processi simili né precedenti. Per questo la prima sfida da affrontare è quella dell’identità: essa è il prerequisito per costruire un “vestito” giuridico che si adatti pienamente al corpo dei popoli europei. Edificare un sistema coerente alle nostre comuni radici richiede che la chiave di volta di tutto l’edificio sia l’uomo, al cui servizio stanno il diritto (il Campidoglio) e le istituzioni democratiche (l’Acropoli). Al di là di tutte le difficoltà (prima tra tutte le differenze linguistiche e geografiche) non potrà costruirsi un’Europa organizzata e vitale senza fondare sulla partecipazione attiva dei popoli europei i modelli di gestione politica delle istituzioni, segnando una netta inversione di tendenza con l’attuale assetto che, più che essere frutto della scelta del popolo, è espressione di rapporti di forza tra gli Stati Membri. Si tratta di trovare il “vestito” per il “corpo” dei popoli europei: se non è ancora chiaro il corpo non è neppure possibile trovare il vestito. Si tratta allora di continuare il percorso che tende a colmare il deficit democratico nella gestione delle istituzioni europee. Ma non è sufficiente continuare questo percorso, che pure è positivo: è necessario rivederne il fondamento, la stessa base teorica, porre al centro del cambiamento la persona. Questa centralità discende direttamente dalle radici comuni dei popoli europei: la centralità dell’individuo nella sua dimensione sociale, giuridica, politica e spirituale è quel minimo comune denominatore culturale che deve informare il nuovo edificio: un edificio democratico, che persegua la giustizia sociale e che abbia una particolare attenzione verso gli ultimi. Non si tratta di una presa di posizione politica: le soluzioni concrete dovranno essere trovate nel confronto tra posizioni e idee differenti; quello che deve essere messo in evidenza è che la centralità della persona nell’edificazione dell’Europa è una vocazione che deriva dalla comune identità culturale dei popoli che la formano. In questo modo sarà possibile affrontare le sfide per la pace che il nostro tempo ci proporrà, a partire dal superamento di quelle situazioni di conflitto che già oggi permangono nel territorio europeo: la divisione di Cipro, le tragedie dei migranti che avvengono quasi quotidianamente nel Mediterraneo, l’instaurarsi di governi autoritari nell’est-europeo, la complessa situazione della città di Melilla (città spagnola in territorio marocchino) e così via. Il mantenimento della pace interna, come si può vedere anche dal breve elenco fatto, non è qualcosa di acquisito ed immutabile, ma è necessario continuare a vigilare ed operare. In questo un segno forte, che l’Europa forse non ha colto fino in fondo, è stato il conferimento del Premio Nobel per la Pace del 2012 all’Unione Europea: il riconoscimento degli sforzi e dei risultati ottenuti in quasi 60 anni di integrazione europea consegnano oggi nelle mani dell’Europa una responsabilità ulteriore: quella di essere veri e primi operatori di pace a livello regionale e globale. Basta prendere in mano una cartina e vedere come non ci sia pace in quasi nessuno dei paesi limitrofi ai territori europei, dall’Ucraina, al Medio Oriente, fino alla sponda sud del Mediterraneo. La scarsa incisività e l’assenza di coesione nell’operato europeo nelle recenti crisi dimostra quanta strada debba essere ancora fatta. Ma è la stessa vocazione alla politica per l’uomo propria dell’Europa che impedisce di accantonare la sfida della pace! È una responsabilità di cui occorre farsi carico, anche e soprattutto con mezzi creativi: chi avrebbe mai detto che investire nella ricerca per ritrovare la sovranità energetica potesse essere un mezzo di pace? Anche a livello globale l’Europa dovrà farsi operatrice di pace. In questo momento storico i rapporti internazionali stanno sempre più diventando rapporti di forza commerciali ed economici, le spese militari tornano a salire, e – mutatis mutandis – rischia di riproporsi una contrapposizione tra blocchi. Se l’Europa vorrà continuare ad essere un attore rilevante nel panorama internazionale dovrà necessariamente farlo nell’ottica della pace. Infatti da una parte, non potendo contare sulle risorse energetiche né potendo competere in termini di costo del lavoro e di produzione con i paesi emergenti, è impensabile che i paesi Europei (nel medio periodo) possano inserirsi con possibilità di successo nei rapporti di forza internazionali, dall’altra parte è la stessa vocazione politica dell’Europa ad esigere che il suo ruolo internazionale sia quello di portatrice di pace. La vocazione prettamente politica dell’Europa fa si che la pace non possa essere intesa solo come “assenza di guerra”, ma deve mirare ad una più profonda pacificazione sociale, tra persone e tra popoli, ossia a costruire una pace di cui tutti possano godere appieno. Le sfide che abbiamo di fronte sono grandi e difficili, per affrontarle è necessario un grande sforzo di preghiera, pensiero ed azione!
Editoriale di Prospettive 149
Terzo trimestre 2014