Pubblichiamo alcune riflessioni e ricordi che Elvira Pajetta ha scritto sulla sua collaborazione con Pino legate in particolare alla vita dell’Istituto degli Innocenti alla fine degli anni ’80. Il ricordo e le riflessioni di Elvira Pajetta sono state oggetto di un incontro formativo lo scorso 6 ottobre, in cui in maniera semplice ed efficace, ci ha raccontato – dalla sua prospettiva – l’impegno civico di Pino.
Vorrei anzitutto ringraziare l’Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira” e la redazione di Prospettive per l’occasione di ri essione su Pino Arpioni e sulle nostre esperienze comuni, che non mi era capitato di fare se non fra me e me e in misura comunque parziale.
Vorrei partire da un momento vissuto in solitudine: dalla corsa in Duomo per partecipare ai suoi funerali dove ho trovato presenti tanti amici e tante conoscenze. Quelle presenze si spiegavano bene, ma non riuscivo e spiegarmi chi fosse quel Pino, quello che in quel momento riceveva un omaggio che mi pareva segnato dalla magni cenza. Forse ero io a sentirmi lontana, fuori posto, nel momento in cui dovevo prendere atto che era andato via… Pino andava via con l’accompagnamento di onori che erano per me impensabili in rapporto al comportamento che aveva sempre tenuto, tanto che lo avevo visto sempre con la stessa giacca, anzi due: una per la buona ed una per la cattiva stagione, con l’aggiunta di un cappotto per i giorni molto freddi.
Ero arrivata all’Istituto degli Innocenti nell’autunno del 1986. Avrei dovuto partecipare al lavoro del nuovo consiglio di amministrazione e svolgervi il ruolo di Presidente. Erano anni di trasformazioni per le Istituzioni di Pubblica Assistenza e Bene cenza. Le vecchie competenze sull’infanzia abbandonata avrebbero dovuto essere riviste. Competenze e patrimonio sarebbero andati ai Comuni? Si parlava di superamento del regime di pagamento dei costi delle rette da parte delle Province e la Regione cosa avrebbe potuto fare per tenere insieme un unicum straordinario e non abbastanza conosciuto come quello?
Le varie forze politiche se ne interessavano e preoccupavano ma, data la loro diversa storia, non tutte allo stesso modo. Nell’ipotesi di uno scioglimento totale dell’Ente era stato siglato dal precedente consiglio di amministrazione un accordo con l’Unicef internazionale, patrocinato a livello nazionale dal Ministero degli Esteri, in forza delle sue competenze e di qualche spettanza derivata dall’immediato dopoguerra. Si sarebbe potuto continuare a svolgere da lì un ruolo per l’infanzia senza perdere un simbolo per la città che era particolarmente caro – ma questo allora non lo sapevo – anche alla Chiesa orentina.
Eravamo in cinque in quel consiglio e, dati i rapporti di forze nell’Amministrazione Provinciale che ci nominava, rappresentavo, con altri due eletti in quota “sinistra”, uno comunista e l’altro socialista, la maggioranza, mentre Arpioni e un componente repubblicano formavano la minoranza. Al di là della corrispondenza fra i nostri compiti e le nostre personalità, cercammo subito un accordo per prendere le decisioni più importanti all’unanimità. Dal momento che non sapevamo dove saremmo andati a nire, pensavamo che sarebbe stato meglio procedere uniti e andarci tutti insieme… la direzione della ricerca, durata per noi cinque anni, più uno
di prorogatio, fu quella di trovare un contenuto operativo e non ef mero alla Convenzione per realizzare un Centro di Cultura per l’infanzia e l’adolescenza. Ci sembrava intanto necessario, mentre ci si proiettava verso il futuro, mantenere in vita i servizi e garantire delle funzioni adeguate a più di cento lavoratori.
Vedevo che Arpioni era l’unico competente e che era ben conosciuto all’interno, anche se non ce lo faceva mai pesare, basti pensare che non ha neppure fatto mai cenno alla sua presidenza! Quante cose dovesse conoscere lo capii quando, per una sua breve malattia, dovetti sostituirlo in un commissione per i sussidi alle madri nubili. Le assistenti sociali istruivano le pratiche per valutare il mantenimento o meno dei sussidi. Presenziando a quel lavoro conobbi un mondo per me “altro” che richiedeva, oltre che senso di giustizia, prudenza e qualcosa di molto simile alla pietà. Pino probabilmente aveva temuto che non capissi quei bisogni, ma presi quell’occasione come una lezione di realtà e mi parve di intuire tutta la sua speciale disponibilità a seguire anche le piccole cose quando fossero necessarie.
Quella di venire avanti in modo felpato era una sua caratteristica. Una volta, mentre discutevo con alcuni consiglieri e le educatrici della scuola materna, a proposito delle critiche che ci venivano dall’Amministrazione Comunale e che ci parevano ingiusti cate, esclamai: «ma in fondo c’è la Provvidenza!». Lo sentii dire alle mie spalle sorridendo: «mi pare che qui mi si rubi il mestiere!».
Quando la nostra conoscenza fu più profonda mi chiese di presentare il progetto, che avevamo nel frattempo e in corsa abbozzato, ai ragazzi dell’Opera La Pira di cui era fondatore e di cui tuttavia non parlava mai. Eravamo partiti da ciò che nell’Istituto era stato creato o depositato per usarlo anche per la ricerca e la formazione: volevamo ripartire dalla storia, dall’arte, dall’archivio specializzato, dai servizi e dalla documentazione delle risposte ai bisogni infantili che se ne poteva ricavare, per farne un Centro di osservazione sull’infanzia di interesse generale. Ma quel giorno di incontro al Cimone il progetto, che tanto mi stava a cuore in quel periodo, non fu il protagonista delle mie emozioni. Quello che mi commosse profondamente fu la naturalezza con la quale Pino mi spiegava l’origine di quell’esperienza di convivenza e di studio per formare giovani generazioni attive e consapevoli della loro piena cittadinanza. Mi aveva detto, come fosse la cosa più naturale, che l’idea gli si era presentata ri ettendo durante la sua prigionia in Germania nella seconda guerra mondiale allora sapevo poco della vita di mio padre a Mauthausen, né come vi fosse sopravvissuto, ma so che a un certo punto mi trovai a parlare piangendo.
Tornando al progetto per l’Istituto degli Innocenti, la nostra s da era con il tempo e con la dimensione dei nostri interlocutori, a partire dall’UNICEF Internazionale che avrebbe dovuto costituire un suo Centro nella sede monumentale ed in parte in rapporto con noi. La convenzione era stata siglata, ma doveva ancora essere rati cata uf cialmente, avremmo dovuto de nire meglio gli obiettivi e tanti particolari. Il lavoro più dif cile era quello di conquistare una dignità propositiva e, a volte, anche gli stessi spazi! Andava ora spiegato ai tanti soggetti accolti in altri tempi che non potevano rimanere ancora in locali in comodato ed andavano convinte anche le gerarchie del’UNICEF che il monumento del Brunelleschi non poteva consentire di rispettare i parametri in uso presso le agenzie delle Nazioni Unite per le stanze dei funzionari. Secondo tutti noi era importante evitare lo smembramento di una unità che sentivamo come “culturalmente creativa”. In questo percorso non ho mai percepito Arpioni come qualcuno che volesse ottenere garanzie per una “sua parte”. Era sempre attento e rispettoso, apprezzava che cercassi di evitare le interferenze di chi non riusciva a considerare le necessità di gestione di un sistema che non era paragonabile a quello di Comuni, Ospedali, Province. Devo anche confessare che l’innamoramento per l’Ente mi aveva esposto molto più di quanto non volessi e capissi alla realtà dei rapporti di forza fra istituzioni. Sono sicura che l’atteggiamento di Arpioni fu di evitare di guardare al singolo episodio, quanto piuttosto di mantenere lo sguardo sempre alla prospettiva dei tempi lunghi.
Una vicenda mi fa pensare ora al suo modo di lavorare con pazienza per favorire le soluzioni: a proposito del riordino del patrimonio ci eravamo trovati “impigliati” nei rapporti ride niti in periodi diversi con chi, principalmente per la Curia, gestiva a Villa Lorenzi le attività di aiuto ai giovani in dif coltà, che non portavano nessun tipo di risorse per poter pagare lavori di manutenzione o af tti. Alla ne ci rendemmo conto che non era realisticamente possibile tornare in possesso del bene per destinarlo ad altri usi e decidemmo che l’unica soluzione era di cederlo a chi lo aveva gestito negli ultimi decenni. Mi dissero poi che il Cardinal Piovanelli voleva incontrarmi per ringraziarmi per questa decisione e, di fronte alla mia domanda ai collaboratori se avessi commesso qualche irregolarità a favore di qualcuno, mi fu risposto di no ma che ci si immaginava un altro comportamento da parte mia. Così posso ricordare con molto piacere l’incontro con il Cardinale che si sentiva spiegare da me le caratteristiche dell’Istituto, che ben conosceva, e che mi chiamava “la professoressa”, come a sottolineare la mia propensione a dare lezioni. Probabilmente un tratto di Pino era quello di aspettare che le cose maturassero senza forzature e decisionismi ed aveva ottenuto un risultato del quale non si sarebbe mai vantato.
Qualcosa che mi parve strano mi fu chiesto però, indirettamente anche da lui. Mi sembrava infatti fuori dalle nostre competenze istituzionali l’organizzazione di una cena nel sottosuolo dell’Istituto per alcuni rappresentanti della chiesa ortodossa Russa e per autorità religiose orentine e italiane. Ma nello stesso tempo capii che, a margine degli incontri di avvicinamento fra le chiese e della stessa diplomazia internazionale, potevamo anche in quel modo contribuire a un clima migliore, facilitare un dialogo non sempre semplice da costruire e mantenere. Organizzammo quindi la cena e io partecipai con molto interesse a quella serata, come fossi una padrona di casa,
accolta con tranquilla simpatia da commensali che mi erano in gran parte sconosciuti. Alla metà degli anni ’80, noi occidentali vivevamo in molti “i tempi di Gorbaciov” con attesa e speranza che le novità che cercava di introdurre si sarebbero potute realizzare con il minimo di distruzioni e dolori. In quel periodo Pino mi fermò su un pianerottolo degli Innocenti ed esclamò, con una passione contenuta, ma evidente, che non avevo mai sentito in lui: «pensa, io cattolico, prego perché lui riesca nel suo sforzo!». Ci misi un poco per capire che parlava appunto di Gorbaciov. Verso gli anni ’90 si avvertivano già quelle mutazioni profonde nel quadro politico, nei rapporti fra partiti che, però, non erano ancora tutte evidenti e sembravano mascherarsi e cercare quei pretesti che oggi non sembrano più richiesti. Ci furono, anche per questo clima, resistenze alla realizzazione dei progetti dell’Istituto che sembrava inoltre, poter diventare per alcuni una buona base per la conquista di un’immediata visibilità politica.
I rapporti con l’UNICEF erano stabilizzati, eravamo in dirittura di una legge regionale che avrebbe de nito nuovi compiti e nanziamenti oltre ad una adeguata pianta organica. Per evitare ritardi pensai di favorire il nuovo che voleva avanzare dimettendomi. Mentre spiegavo questo ad Arpioni ed agli altri consiglieri, sentii Pino dirmi con calma, ma con determinazione: «Non dimetterti!» Non capii che era un invito a continuare a lottare per i nostri progetti e seguii la mia strada nella quale c’era anche una parte di vanità, quella di chi si sente offeso dai dubbi sull’onestà delle sue intenzioni. All’inizio degli anni ’90 nì, così, il nostro lavoro insieme, ma non certo un affetto sicuro.
Con il tempo ho ridimensionato le potenzialità che allora sembravano essere tutte a disposizione dell’Istituto solo se “gli altri” le avessero volute vedere. L’eccezionalità del mio rapporto con Pino però non mi è mai sembrata richiedere un qualche ridimensionamento perché era avvenuto sul piano della comune umanità, quella che lui sapeva immediatamente evocare. Ho ripensato a lui quando mi è capitato di leggere una memoria nella quale mio padre scriveva di sua madre che, mentre lui era in prigione, gli ricordava che quanto più la notte è fonda tanto più siamo vicini all’alba. Arpioni, infatti, mi aveva raccontato di aver sempre avuto presente nelle dif coltà sua madre che, mentre lui si era trovato a spingere un carretto in salita, gli aveva raccomandato: «Pino, pensa alla scesa!».
Elvira Pajetta, 6 ottobre 2016