Pino Arpioni, attualità di un laico 1
Firenze, 3 dicembre 2006
“VITA DI GRAZIA E FEDELTÀ ALLA CHIESA"
Il mio primo incontro con Pino è avvenuto nella primavera del 1971 in un ristorante del Valdarno, tramite Andrea Cappelli, allora studente di Ingegneria, già capogruppo alla Vela, con cui condividevamo l’esperienza nella parrocchia di S.Cipriano e S.Barbara. Pino, mi parlò della Vela, dell’importanza del lavoro educativo con i giovani e mi chiese la disponibilità a partecipare come animatore ai campi estivi. Accettai l’invito e così mi ritrovai per la prima volta, come capogruppo nella casetta Montecristo al campo giovani dell’agosto 1971. I contatti da allora si intensificarono fino al mio trasferimento in Casa Gioventù nel settembre 1972, con un duplice obiettivo: frequentare come studente di Ingegneria l’Università di Firenze; collaborare in modo continuo all’attività dell’Opera. Fu un tempo molto intenso, per la vita in comune con Pino e con il Prof. La Pira, per il confronto continuo con loro, per la scoperta progressiva di tante persone cristianamente impegnate, che ruotavano intorno a loro.
La mia presenza a casa Gioventù si concluse quando, in vista di una scelta che avrebbe cambiato la mia vita, decisi di accelerare gli studi e laurearmi. La mia collaborazione con l’Opera non venne meno durante gli anni del seminario a Fiesole (1978-1983), partecipando regolarmente agli incontri del Martedì, alla preparazione delle tre giorni di Novembre, a quella dei capogruppo al Cimone e la presenza costante ai campi estivi della Vela. Infine ho svolto il ruolo di assistente spirituale dell’Opera dal 1983 al 1990.
Per affrontare la relazione che mi è stata affiata “Vita di grazia e fedeltà alla Chiesa, punti di fondo per una laicità vissuta a pieno” ho pensato di fare riferimento a:
tre date, tre persone, tre testi, con l’ obiettivo di far emergere che si tratta di un unico pensiero.
La prima data: l’anno 1955; la persona: il prof. Giorgio La Pira; il testo: “Cosa Cristo mi ha insegnato” (pubblicato su Prospettive anche nella versione manoscritta).
La seconda data: l’anno 1970; la persona: Pino Arpioni; il testo: “Ripensando La Vela” (pubblicato su Prospettive: bimestrale n°12 settembre-ottobre 1970).
La terza data: l’anno 2006; la persona: papa Benedetto XVI°; il testo: il discorso al 4° convegno della Chiesa italiana a Verona (19 ottobre 2006).
Nel gennaio 1955, anno di inizio delle attività della Vela, La Pira scriveva uno dei testi autobiografici che rivelano l’identità profonda della sua persona, tanto che ogni volta che lo leggiamo suscita emozioni; forse perché rende evidente qualcosa che anche noi abbiamo sperimentato.
Due cose Cristo mi ha insegnato, essenzialmente legate fra di loro: l’una complementare dell’altra.
E la prima è questa: che la nostra anima non ha pace, non ha fecondità vera, non ha vero riposo, senza la Parola dolce e santificante di Dio che la impreziosisce, la riposa, la pacifica, la consolida! È letteralmente vera l’espressione viva di Agostino: Signore ci hai fatto per Te ed è inquieto il nostro cuore fino a quando non riposa in Te.
[…] Questa è la cosa prima e fondamentale che Cristo mi ha insegnato: la vita interiore in Lui saldata, come è saldato il tralcio alla vite: la vita interiore da Lui arricchita, come è arricchita la fonte dall’acqua viva; […]
La parola dell’Evangelo è su questo punto di una chiarezza estrema: io — dice il Signore — sono la via, la verità e la vita.
La seconda cosa che Cristo mi ha insegnato è la seguente: che tutte le cose create hanno valore in Lui, assumono validità in Lui: gli altri uomini, miei fratelli destinati con me alla vita eterna, alla resurrezione futura, le città, le civiltà, il tempo, lo spazio; insomma la terra con tutte le sue dimensioni ed i suoi valori, il tempo con tutte le sue dimensioni ed i suoi valori.
Cristo consacra tutto, fa tutto nuovo.
La grazia di Lui tutto santifica, sana, eleva: fa del mondo terreno un cantiere effettivo, edificatore, del mondo celeste. […]
Vale tutto, se in Cristo inquadrato: ecco la verità basilare dell’azione. Vale la persona, la famiglia, il lavoro, la casa, l’amicizia, la cultura, l’arte, la poesia, la politica, l’economia, la tecnica; vale tutto, se tutto è ordinato all’unico fine: edificare sulla terra la città del Signore: si faccia la tua volontà come in cielo così in terra!
Mi colpì, e la ritengo anche oggi profondamente illuminante, l’immagine biblica usata dal card. Antonelli nell’omelia della messa di congedo da Pino in Duomo a Firenze il 6 dicembre 2003: come «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo» così , disse il Cardinale, lo spirito di Giorgio è passato a Pino.
Seconda data: l’anno 1970. In un linguaggio da manifesto programmatico, frutto del confronto con i capogruppi e dirigenti del tempo, ma per chi ha conosciuto Pino non può non esprimere in modo determinante la sostanza del suo pensiero, in Ripensando la Vela, testo che possiamo sicuramente ritenere anche oggi la carta di identità dell’Opera, ritroviamo gli stessi contenuti:
Oggi un discorso sull’importanza e sulla validità del mondo interiore della persona, di quella che è la vita di grazia e di rapporto con Dio nella preghiera, è ritenuto sorpassato, […]
Il discorso su Dio, sulla fede, sulla grazia e sulla preghiera non si fa, anzi si ha paura di farlo perché si teme di non essere « moderni », di non camminare con i tempi.[…]
Noi invece riteniamo di massima e primaria importanza un discorso di questo tipo perché crediamo che Dio e l’uomo sono due realtà che non si possono separare. […]
Sia che ci si creda o che non ci si creda, l’uomo è stato creato da Dio e redento da Cristo risorto: questi sono fatti che nessuno può cancellare. L’uomo porta in sé l’impronta di Dio creatore e tutto il suo essere dice rapporto a Lui. Afferma S. Agostino: « Tu ci hai fatti per Te o Signore e il nostro cuore è inquieto finché in Te non riposa ». Anche se non ne siamo pienamente consapevoli, siamo essere divinizzati.
Stando così le cose, eludere il problema di Dio e della fede significa non capire chi è l’uomo, significa non contribuire alla maturazione di tutto l’ uomo. Dio si è inserito nella storia personale di ogni uomo non per togliere all’uomo una parte di quella libertà che gli aveva concesso creandolo, ma per arricchirlo della Sua vita, per renderlo veramente disposto a servire i fratelli. Il nostro Dio è colui che crea dei creatori e ci affida il compito di completare la sua opera, che fa di noi i suoi collaboratori, come dice S. Paolo.
Sono la preghiera e l’incontro con Dio che ci plasmano uomini sempre nuovi, pronti ad adempiere la volontà di Dio che è sempre il bene di tutti gli uomini. […]
La forza e la verità di queste parole (che possiamo ritenere di Pino), come la forza e la verità di quelle del Prof. La Pira, ha una comune radice: la totale coerenza tra vita e annuncio, fra gesti e parole.
Parafrasando Giovanni Evangelista potremmo anche noi dire: abbiamo visto con i nostri occhi come questa dimensione, interiore, verticale, di vita di grazia, non era, per Pino e il Professore, un bollino di appartenenza, un generico richiamo ai valori cristiani, ma una esperienza da vivere. E proprio per questo, perché prima di tutto esperienza personale, era per Pino uno dei pilastri del percorso educativo.
Come non ricordare:
la giornata di Pino (e del Professore) scandite dalla preghiera: la messa di buon ora alla SS. Annunziata, la recita quotidiana della liturgia delle ore, la visita al SS. Sacramento nella chiesa dell’adorazione perpetua di via Gino Capponi, ma anche i quattro volumi del breviario ricevuti da Pino in dono; e poi l’organizzazione dei campi e degli incontri, alla Vela, al Cimone, con le giornate anch’esse scandite dal ritmo della preghiera, la s.messa giornaliera (facoltativa, ma vivamente raccomandata), la preghiera ai pasti, l’adorazione al termine di una intensa giornata dopo la revisione del lavoro del giorno, la messa di casetta, la ricerca e la preoccupazione per la presenza di sacerdoti capaci di stare con i giovani, di accompagnarli nel loro progetto di vita con la direzione spirituale e con il sacramento della confessione. La preoccupazione, in una parola, che la preghiera fosse parte integrante della giornata di ogni persona, che la vita in grazia di Dio fosse importante come l’aria che si respira.
A questo riguardo ricordo come una piacevole ed efficace esperienza pastorale, le confessioni fatte sulla seggiovia al Cimone ….
Se ora facciamo un balzo in avanti di 36 anni e arriviamo ai nostri giorni, queste stesse preoccupazioni la troviamo, anche se espressa con un altro linguaggio ancora, quello di un teologo, nel discorso di papa Benedetto XVI°al convegno ecclesiale di Verona:
[…]L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per una tale testimonianza (di Gesù Risorto speranza del Mondo). Profondamente bisognoso, perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo anzi estraneo. […]
Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità: non sia quindi in grado di instaurare un vero dialogo con le altre culture, nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente, oltre a non poter rispondere alle domande fondamentali sul senso e sulla direzione della nostra vita. Perciò questa cultura è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza.
[…]La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, […] è […] la più grande "mutazione" mai accaduta, il "salto" decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo[…]
La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé. […]
Come non avvertire in queste espressioni sulla risurrezione, la stessa forza e la stessa profondità di fede del Prof. La Pira e di Pino.
A 36 anni di distanza da Ripensando al Vela e a 51 da Cosa Cristo mi ha insegnato, possiamo facilmente scorgere nel confronto fra questo autorevole testo e quelli precedentemente citati, una sostanziale unità di pensiero, un radicamento del pensiero di Pino nei valori fondativi e non negoziabili della Chiesa e per questo ieri come oggi di attualità educativa.
Se volessimo approfondire ed attualizzare questa prima grande sfida educativa, potremmo richiamare un testo del card. Ratzinger pochi giorni prima di essere eletto papa tenuto a Subiaco 1 aprile 2005. [–pagebreak–]
…”La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra. Se si arriverà ad uno scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle grandi religioni …, ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche. …
Il relativismo, che costituisce il punto di partenza di tutto questo, diventa così un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione. […]
Nel dialogo, così necessario, tra laici e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti a restare fedeli a questa linea di fondo: a vivere una fede che proviene dal logos, dalla ragione creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale. Ma a questo punto vorrei, nella mia qualità di credente, fare una proposta ai laici. Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. …
Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno”.
E nella Deus Caritas Est, che richiama l’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II° (“La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”) …
”la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell’ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio”(DCE n.28).
Ma vi è un altro elemento che da un lato rende attuale l’attività educativa di Pino, dall’altro ci aiuta a scoprire la sua persona, la sua laicità profetica.
Mi riferisco al secondo punto del tema affidatomi (fedeltà alla Chiesa). In un tempo in cui era facile sentire il ritornello: Cristo sì, Chiesa no, Pino si pone decisamente e senza indugio contro corrente.
Era terminato da qualche anno il Concilio Vaticano II° e la Chiesa e l’intera società in Italia stavano vivendo i momenti non facili della contestazione, che puntava il dito contro ogni forma di istituzioni e che accusava in particolare la chiesa di non essere coerente, di non essere capace di camminare con i poveri, con i poveri del sud del mondo in particolare.
Io stesso e la mia generazione si è trovata sballottata da una opinione pubblica che sosteneva che tutto era politico, che ciò che contava era la creatività, che non si sopportava il ruolo dell’autorità. E in tutto questo molte comunità ecclesiali si dimostravano incapaci di saper leggere ciò che stava accadendo, e di offrire percorsi educativi adeguati alle sfide del tempo.
Forte della convinzione lapiriana della Storiografia del profondo, che cioè non si deve fermarsi ai sommovimenti di superficie per capire dove sta andando la storia umana, convinto come La Pira che i giovani vanno ascoltati perché sono come le rondini: annunciano una stagione nuova, Pino assunse questa chiara posizione (da Ripensando La Vela):
Un secondo valore caratterizza il nostro sforzo educativo e formativo dei giovani: l’amore alla Chiesa. A questa nostra Chiesa […] che è sempre la Chiesa di Cristo Signore, da Lui strutturata come un organismo fondato sugli apostoli e su Pietro, e a cui Egli stesso ha assicurato immutabilmente la solidità, ha indicato il cammino e il destino.
Che la Chiesa oggi come ieri abbia continuamente bisogno di purificarsi, di liberarsi dal peccato che spesso la invischia nelle pastoie e nei limiti della natura umana è un fatto scontato da allacciarsi all’altro fatto per cui essa è composta di uomini i quali portano ovunque l’eredità del peccato di Adamo e il peso della debolezza della loro natura.
Quindi un desiderio e una richiesta continua di purificazione e di emendamento devono costituire l’atteggiamento costante di ogni cristiano, di ogni battezzato proprio in quanto membro vivo di questo corpo di cui Cristo è il capo.
Oggi però si rischia di far perdere di vista agli uomini quelli che sono il cammino e la missione che il Cristo risorto ha affidato alla sua Chiesa nel mondo.
Questo organismo, unico al mondo che ha resistito all’usura del tempo, che ha iniziato il suo cammino a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste ed è giunto fino a noi nonostante tutti i limiti e le soste, i momenti di allentamento, di paura e di fatica, continua oggi come ieri la sua missione spirituale e storica per la creazione della storia del mondo. « La Chiesa in cammino presso tutte le nazioni e tutti i popoli, attenta a tutte le prospettive e alle svolte della storia per riversare su tutti la grazia e la luce di Cristo risorto, per sanare dal peccato, per illuminare e perfezionare gli uomini e i popoli ».
Quello che noi auspichiamo non è la rinuncia a un atteggiamento critico, intelligente, maturo e responsabile, fatto con cognizione di causa e da chi ha capacità idonee, ma questo atteggiamento critico non ci deve far perdere il senso profondo della missione della Chiesa nella storia dei popoli.
Dobbiamo ritrovare inoltre un amore alla Chiesa fondato anche sul fatto che è in essa che l’uomo di oggi si incontra veramente e in modo autentico e profondo con il Cristo, usufruendo della sua grazia e della Sua redenzione. La Chiesa è il prolungamento di Cristo nel tempo e nello spazio.
Un pensiero fermo e sicuro non pietistico, né devozionale, che radica la Chiesa in Cristo.Un pensiero segnato da un grande progetto della storia, quello iniziato con l’incarnazione ed illuminato dalla risurrezione di Cristo, disegno di amore di Dio per l’umanità, ben espresso con l’immagine della barca di Pietro chiamata ad imbarcare tutti i popoli costantemente ricordata dal Prof. La Pira; riassumibile nel principio: avanti ma fermi (avanti rispetto alla situazione presente, ma fermi e fedeli rispetto a Cristo, alla Chiesa e ai valori fondamentali).
Nascono in quegli anni le 4 giorni di novembre sulla storia della Chiesa. Tre giorni di studio a Firenze ed il quarto un pellegrinaggio a Roma con oltre 400 giovani provenienti dalle varie diocesi della Toscana con un duplice obiettivo: rivisitare un luogo significativo della storia della Chiesa (Ara Pacis, Catacombe di S.Sebastiano, Arco di Costantino …) e celebrazione in San Pietro rinnovando la professione di fede all’altare della Confessione. Andare a trovare il papa, se possibile incontrarlo, dire che noi vogliamo camminare con lui, chiunque esso sia, perché in lui riconosciamo il successore di Pietro. Abbiamo ben presente la foto con papa Paolo VI° nell sala Clementina in Vaticano.
Nascono anche i quaderni di prospettive sulla storia della Chiesa.
E dopo la morte del prof. La Pira, la grande prospettiva ecumenica. Con la Chiesa Anglicana (l’indimenticabile incontro di Londra 1979); i rapporti con la Chiesa Greco ortodossa del Pireo; e dal 1984, venticinquesimo anniversario del primo viaggio del Prof. La Pira a Mosca, con la chiesa russa.
Come ben sappiamo accanto ai due sopra citati (dimensione verticale e amore alla Chiesa) vi è un terzo punto fermi nel progetto educativo: La solidarietà umana, che accenno brevemente (da Ripensando La Vela):
[…] aprirsi agli altri è fattore primario per la maturazione della propria personalità.
Bisogna risvegliare questo senso sociale, bisogna rendersi conto che la vita è un impegno serio a servizio degli altri. Nessuno vive per se stesso, nessuno muore per se stesso, ma tutti siamo nel mondo corresponsabili dell’avvenire dell’umanità, della realizzazione di un mondo dove l’uomo torni ad essere il centro e la misura di tutto, fattore primario e insostituibile della storia dei popoli.
Come non ricordare al riguardo il percorso educativo basato sullo studio della costituzione italiana, sui corpi intermedi, sulla partecipazione al bene comune, la lettura ai capi della Vela di Umanesimo Integrale di Maritain, dei testi sul personalismo di Mounier …, la passione per il disarmo, la non violenza, la pace nel mondo, l’attenta ricerca dei segni dei tempi (rubrica di prospettive e il lavoro redazionale del martedì, la preoccupazione per una corretta informazione sulla posta in gioco sui referendum per il divorzio (1974) e aborto (1981).
Un progetto educativo che mira alla formazione integrale della persona, radicata nella fede, inseriti nella Chiesa, ma adulta, capace di prendere decisioni e di assumere responsabilità nella chiesa e nel mondo. Si legge nel manifesto del 1970:
I campi estivi della Vela non sono dei convegni di studio per intellettuali o per persone di un certo livello culturale; …Abbiamo bensì davanti ai nostri occhi molti giovani di vaste zone della Toscana che non hanno la possibilità di affrontare problemi che li riguardano da vicino. La nostra attenzione è rivolta a loro, a questi giovani … che hanno bisogno perciò di essere aiutati in questa loro crescita e maturazione.
Diciamo subito che la nostra non vuole essere altro che una mano tesa ai giovani perché soprattutto nel periodo in cui si costruiscono uomini e poi anche in tutta la loro vita, abbiano sempre presenti dinanzi a loro quelli che sono i valori fondamentali che definiscono una personalità matura.
La stessa preoccupazione per una educazione integrale dei giovani è risuonata nelle parole di Benedetto XVI° nel citato discorso al convegno ecclesiale di Verona:
[…] perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali. Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitudine per la persona umana e la sua formazione vengono i nostri "no" a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi "no" sono piuttosto dei "sì" all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio.
Concludendo dunque possiamo affermare che, se l’Opera saprà restare fedele a questi punti fermi, porterà un contributo decisivo e sarà certamente protagonista di una nuova stagione formativa di giovani e di laici adulti e maturi, di nuovi quadri dirigenti capaci di animare le realtà ecclesiali, sociali e politiche dei nostri territori, sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in loro.
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L’impegno dei laici cristiani: l’ecumenismo e la testimonianza di Pino Arpioni
Nel nostro mondo secolarizzato, come si può rendere testimonianza alla speranza, ad un perenne trascendimento a ciò che ci divide come cristiani e come esseri umani? Ha senso parlare dell’ecumenismo quando il futuro è scomparso dal nostro orizzonte? A Verona il Papa diceva: “Dio sembra divenuto superfluo anzi estraneo…questa cultura è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza”. I ritmi della “normalità” del nostro presente costituiscono un pericolo quando sono vissuti come se Dio non ci fosse. Ci chiudono al futuro, alla speranza, come catalizzatore nel presente. Il vangelo di questa prima domenica di Avvento pone l’avvenire di Cristo come sconvolgente conclusione e arrivo in tempi brevi dell’ultimo giorno, ossia come la promessa di un futuro la cui attesa dà ragione a tutti i nostri tentativi di trasformare in meglio la vita nel presente. Siamo richiamati a vivere, dunque, nell’attesa, che significa l’apertura al nuovo e la capacità di perseverare nella speranza di un miglioramento anche quando i segni del nuovo promesso non si vedono. Occorre riconoscere che accogliere l’avvenire del nuovo nella presenza di Dio tra noi significa accogliere ciò che turba e sconvolge e mette in discussione le nostre aspettative e le nostre categorie. L’avvenire di Dio è di là dalla normalità. Rompe il ritmo della nostra vita come un ladro che viene di notte proprio per nascondersi e sconvolgere la casa (cf Lc 12, 35-40). L’ecumenismo comporta un tale sconvolgimento.
Partendo da una valorizzazione della testimonianza di Pino, stiamo facendo oggi una riflessione sull’impegno dei laici cristiani, che non significa altro se non l’impegno di ogni cristiano, senza distinzione. La venuta di Cristo, la presenza di Cristo nella storia, si realizza attraverso di noi. Essere cristiano significa essere sacramentale, sacramentale di questo avvenire di Cristo nel nostro quotidiano continuo. Vorrei ricordare qualche parola pronunciata dal Papa Paolo VI° all’Udienza Generale il 19 ottobre 1966.
…ora, dopo il Concilio specialmente,…questo termine di segno e di sacramento…è attribuito alla Chiesa. Dice il Concilio: «La Chiesa è in Cristo come un sacramento, ossia un segno e uno strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium, 1 etc.)…Guardando alla Chiesa noi dobbiamo intravedere Cristo…La Chiesa non è uno schermo opaco, è un diaframma diafano, che ci abilita a metterci in contatto con Cristo…
Come mai dunque la Chiesa non mostra la sua virtù di segno…la sua prerogativa di presenza di Cristo? Oh! rispondere sarebbe lungo!…la Chiesa in certi suoi momenti e in certi suoi aspetti non è bella, non è splendida, non è significativa e parlante, perché i suoi figli non sono esemplari e non vivono da veri cristiani…
Sapete che il Concilio ha applicato questo titolo di «segno» a tutto il Popolo di Dio, a tutti i fedeli? e che così a tutti fa obbligo di «testimoniare» Cristo?…Così che tutti siamo invitati a riconoscere e a celebrare nella Chiesa il segno e la bellezza di Cristo; come tutti siamo tenuti a concorrere con la nostra autentica vita cristiana a dare alla Chiesa una più viva ed operante capacità d’irradiare lo splendore salvifico e beatificante di Cristo.
Una settimana fa, stavo a Roma per assistere alle celebrazioni del 40° anniversario dell’incontro nel 1966 tra Paolo VI e Sua Grazia il Dottor Michael Ramsey, l’allora Arcivescovo di Canterbury e capo della Comunione anglicana, che ha impresso una nuova direzione ai rapporti tra la Chiesa Anglicana e la Chiesa Cattolica Romana, e della fondazione del Centro Anglicano di Roma voluto da Paolo VI e che aveva i suoi inizi in questo incontro. Paolo VI° ha accolto l’Arcivescovo Michael Ramsey con queste parole:
Noi vogliamo che Ella abbia questa prima impressione varcando le soglie della Nostra dimora: i Suoi passi non arrivano in una casa straniera; essi giungono in una casa che Ella per sempre validi titoli può dire anche Sua; Noi siamo lieti di aprirle le porte, e con le porte il Nostro cuore; perché Noi siamo contenti ed onorati, applicando a questa circostanza una parola di S. Paolo, di accoglierla « non come ospite e forestiero, ma come concittadino dei Santi e della Famiglia di Dio » (cfr. Eph. 2, 19-20). Certamente dal cielo S. Gregorio Magno e S. Agostino guardano e benedicono.
Ci rendiamo conto perciò dei vari aspetti di questo avvenimento; e non esitiamo, innanzi tutto, a rilevare il valore storico di quest’ora: essa Ci appare grande, quasi drammatica, e felice, se pensiamo quale lunga e dolorosa storia essa intende concludere, e quale nuovo svolgimento quest’ora può inaugurare per i rapporti fra Roma e Canterbury: l’amicizia li dovrà d’ora innanzi ispirare e guidare (enfasi mio).
(E, nello spirito del Lumen Gentium, il Papa prosegue) Vediamo l’importanza civile che questo esempio di ben avviata concordia e questo proposito di pratica collaborazione possono avere per la pace fra le Nazioni nel mondo e per la promozione della cristiana fratellanza fra gli uomini.
Il Giovedì, 24 marzo 1966, alla conclusione della celebrazione liturgica presso la Basilica Ostiense di San Paolo quando il Papa e l’Arcivescovo hanno firmato la Dichiarazione Comune della Chiesa Anglicana e la Chiesa Cattolica Romana, il Papa chiede che pronunciano la Benedizione insieme, e in un gesto spontaneo, forse ispirato da una preghiera per l’unità di là dalle parole ma che comunque non poteva tenersi, si è tolto il suo anello episcopale e lo ha messo al dito dell’Arcivescovo. Ogni successivo Arcivescovo di Canterbury in visita al Papa ha portato quell’anello.
Poi, nel mese di ottobre sempre dell’anno 1966, il Comitato del Centro Anglicano di Roma fu ricevuto così da Paolo VI°:
Voi venite per stabilire a Roma un centro che possa servire a fare meglio conoscere la Chiesa Anglicana, e rispettivamente che possa fare meglio conoscere la Chiesa Cattolica Romana. È questo il primo passo dell’ecumenismo pratico: conoscersi; conoscersi reciprocamente. Le distanze che ci separano ancora devono essere superate da questo primo avvicinamento: la conoscenza vicendevole. Una conoscenza senza pregiudizi, animata da riverenza, desiderosa di scoprire non tanto ciò che ci separa, ma ciò che ci unisce; una conoscenza che toglie le diffidenze e che apre le vie per qualche successivo avvicinamento (enfasi mio). Possiamo forse coniare una formula: conoscenza che prepara l’amore; amore che conduce all’unione. Sarà così? Noi lo speriamo, e ne esprimiamo anche in questa occasione il lieto augurio, affidandolo al Signore che vede nei cuori e che guida coloro che sinceramente vogliono cercarlo e servirlo.
Il 23 novembre passato, avvenne la visita dell’attuale Arcivescovo di Canterbury, il Dottor Rowan Williams al Papa Benedetto XVI. Durante il suo intervento, il Papa diceva:
L’amicizia e buoni rapporti fra Anglicani e Cattolici che esistono in tanti luoghi hanno contribuito a creare un nuovo contesto in cui la condivisione della nostra testimonianza al vangelo di Gesù Cristo è stata nutrita e promossa. Le visite alla Santa Sede da parte di successivi arcivescovi di Canterbury hanno rinforzato questi rapporti e sono state di un aiuto nell’affrontare gli ostacoli che ci tengono separati…Per tutto ciò, rendiamo grazie a Dio…
Il mondo ha bisogno della nostra testimonianza e della forza che viene da un’indivisa proclamazione del Vangelo. Le enorme sofferenze della famiglia umana e le ingiustizie che colpiscono le vite di tante persone costituiscono un urgente richiamo alla nostra testimonianza e al nostro servizio condivisi.
Mentre a sua volta l’Arcivescovo diceva:
Il cammino di amicizia iniziato insieme nel 1966 debba continuare…perché solo il fondamento stabile dell’amicizia in Cristo ci renderà capaci di essere onesti sia nel parlare l’uno con l’altro di queste nostre difficoltà, sia nel discernimento del modo di progredire che vorrebbe esprimere piena fedeltà al nostro compito di discepoli di Cristo…
Comunque, in quanto siamo entrambi pastori della famiglia cristiana, c’è un impegno comune di essere promotori in questo mondo di riconciliazione, giustizia e compassione – di essere ambasciatori di Cristo – e sono fiducioso che le difficoltà non riusciranno di eclissare ciò che possiamo affermare e proclamare insieme – la speranza di salvezza e riconciliazione per mezzo della Grazia e dell’Amore di Dio manifestati in Cristo.
La Dichiarazione Comune firmato in seguito dal Papa e dall’Arcivescovo si riferisce al bene che è uscito da quattro decenni di dialogo, alla comunione, sebbene incompleta, che comunque esiste tra le due Chiese, alla crescente condivisione di testimonianza oltre le attuali difficoltà, e infine, la Dichiarazione afferma l’urgenza nel rinnovare l’impegno di proseguire nel cammino verso la piena e visibile comunione nella verità e nell’amore di Cristo.
Mi sono avviato sulla scia del Concilio e di questi incontri nel 1966 di cui adesso stiamo celebrando l’anniversario con altri incontri ugualmente significativi, perché indica che l’ecumenismo nasce con l’incontrarsi che permette lo sviluppo dell’amicizia in Cristo, di rapporti di affetto e della consapevolezza che abbiamo bisogno l’uno dell’altro, e non solo per noi stessi, ma per essere sacramento e segno efficace che promuove l’unità e la condivisione fra l’intera famiglia umana. Direi che l’iniziativa successiva di Pino e dell’Opera si parte dalla stessa intuizione che solo l’aprirsi all’incontro con altri che rappresentano la Chiesa nella sua diversità offri la possibilità di raggiungere la conoscenza che sappia poi costruire dalla diversità la comunione.
Nel 1979, come ben sapete, in compagnia del Cardinal Benelli, l’Arcivescovo di Firenze, l’Opera venne in Inghilterra per incontrare l’Arcivescovo di Canterbury e conoscere meglio la Chiesa Anglicana. La comunità della Chiesa Universitaria del Cristo Re di Londra dove io fui cappellano decano ospitava una Liturgia ecumenica. L’anno successivo, l’Opera mi invitai a partecipare con tre studenti anglicani nel campo estivo a La Vela. Pino mi scrisse così (il 17 luglio 1980):
La presenza di Lei e dei suoi giovani ad un nostro campo-scuola sarà certamente un momento di crescita nella linea tracciata dall’incontro di Londra, ossia all’insegna della “Preghiera, dello Studio e dell’Amicizia*”…
Il lavoro educativo che l’“Opera Giorgio La Pira” svolge vuol favorire questo desiderio di incontrarsi* fra giovani di diocesi diverse, offrendo, in una esperienza di comunità di quindici giorni, con un ritmo di vita ordinato e rispettoso di tutte le esigenze di un giovane, motivi di riflessione per una piena maturazione umana e cristiana…(*enfasi mio).
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Durante la nostra permanenza a La Vela nell’80, Pino mi invitò a celebrare l’Eucaristia anglicana nella cappella. Per i giovani e i responsabili a La Vela fu come se all’improvviso delle squame li cadessero dagli occhi. Dopo la liturgia, qualcuno notava che lo scambio della pace si faceva, come nel rito ambrosiano, prima dell’offertorio, mentre tutti chiedevano: “Allora, qual è la differenza? Perché siamo divisi?” Lo storico incontro internazionale dei vescovi Anglicani e Cattolici tenuto in Canada nel 2000, dopo la celebrazione dell’eucaristia secondo il rito anglicano e cattolico a giorni alterni, ha fatto la stessa esperienza. La forza dell’incontro sta nel farsi conoscere, ma anche nel stupirsi di che è, e di farsi interrogare. Il valore e la validità sia del rapporto ecumenico sia di quello inter-religioso, si trova qui, nella riconoscenza reciproca di ciò che ognuno ha da condividere. Ogni realtà ecclesiale, come ogni religione, celebra e parla accanto all’altra della propria esperienza di Dio, ed è questo che ci fa riconoscere che la verità è relativa, non ad altre verità, ma al Mistero, il Mistero di cui ci accorgiamo incontrandoci e in cui possiamo scoprirci già uniti.
A Natale del 1980, assistetti con diversi studenti dalla mia cappellania a Londra all’incontro internazionale di Taizé che quell’anno ebbe luogo a Roma. Nella Basilica di San Pietro, alla liturgia conclusiva preseduta dal Papa Giovanni Paolo II e frère Roger il Priore di Taizé insieme, ad un certo punto nel suo intervento frère Roger, disse: “Ho trovato la mia vera identità di cristiano riconciliando in me stesso la fede delle mie origini con il mistero della fede cattolica, senza rompere la comunione con nessuno”. Nell’indomani di una polemica sulla posizione di frère Roger, un pastore protestante, che è scoppiata recentemente in seguito ai funerali del Papa Giovanni Paolo II, quando il Cardinal Ratzinger gli ha dato la comunione, e quando poi il Cardinal Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per L’Unità dei cristiani, ha preseduto ai suoi funerali a Taizé, la Comunità di Taizé ha rilasciato una chiarificazione:
Un testo del Pontificio Consiglio per L’Unità dei cristiani, di Roma, è citato (in un articolo riguardante frère Roger nel giornale Le Monde del 6 settembre 2006) per sostenere la tesi di una «conversione » di frère Roger, mentre in realtà non dice niente di tutto ciò.
In merito poi al vescovo emerito di Autun, mons. Séguy, lo stesso ha già chiarito le sue parole. Rifiutando il termine «conversione», ha dichiarato…: « Non ho detto che Frère Roger avrebbe abiurato il protestantesimo, bensì che ha manifestato di aderire pienamente alla fede cattolica ».
D’origine protestante, frère Roger ha percorso un cammino senza precedenti dopo la Riforma: entrare progressivamente in una piena comunione con la fede della Chiesa cattolica senza alcuna « conversione » che implicasse una rottura con le sue origini.
Nel 1972, l’allora vescovo di Autun, mons. Le Bourgeois, diede a frère Roger la comunione per la prima volta, semplicemente, senza chiedergli un’altra professione di fede se non il Credo recitato durante l’Eucaristia e comune a tutti i cristiani. Diversi testimoni presenti lo potrebbero riferire.
Parlare rispetto a ciò di « conversione », significa non capire l’originalità di ciò che frère Roger ha ricercato…
Il cammino di frère Roger non è stato compreso da tutti ma è stato accolto da molti, dal Papa Giovanni Paolo II, da vescovi e teologi cattolici che sono venuti a celebrare l’eucaristia a Taizé, ed anche da responsabili delle Chiese protestanti ed ortodosse, con i quali frère Roger ha pazientemente costruito una relazione di fiducia nel corso degli anni.
Coloro che vogliono ad ogni costo che le confessioni cristiane trovino ciascuna la propria identità contrapponendosi fra di loro, non possono certamente cogliere il cammino di frère Roger. Era un uomo di comunione e forse è proprio questo che per certe persone è difficile da capire (6 settembre 2006. http://www.taize.fr/it_article3863.html).
Quello che conta alla fine è che ognuno vive la propria testimonianza con integrità, che ognuno esercita, nella concretezza del quotidiano, il proprio compito di fa presente Cristo. Paolo VI° diceva: tutti siamo tenuti a concorrere con la nostra autentica vita cristiana a dare alla Chiesa una più viva ed operante capacità d’irradiare lo splendore salvifico e beatificante di Cristo. E poi, della sua parola, ha fatto gesto: lui ha aperto le porte, lui ha aperto il proprio cuore, lui ha messo il suo anello al dito dell’Arcivescovo che è scoppiato in pianto. L’essere cristiano significa essere sacramentale. L’Arcivescovo Williams, portando quell’anello come i suoi predecessori e varcando le soglie in tempi ancora travagliati, dice, insieme al Papa Benedetto che lo ha accolto, che l’amicizia in Cristo rimane l’irrefutabile fondamento di tutto. Così riconciliando in loro stessi le contraddizioni, diventano sacramento di riconciliazione.
In questo cammino di riconciliazione intrapreso da frère Roger, compianto Priore della Comunità Monastica di Taizé, sono stato colpito ed incoraggiato dalla scoperta di un percorso in qualche modo analoga al mio e all’impegno ecumenico di Camaldoli.
Mi avete invitato oggi come “testimone primario dell’impegno ecumenico di Pino fin dalle sue fasi iniziali”, e mi avete presentato nel programma come “sacerdote della Chiesa Anglicana e monaco camaldolese”, chiedendomi una mia testimonianza. Al rischio di entrare troppo nel personale, la presentazione ha bisogno forse di qualche spiegazione! E qui vorrei condividere con voi una di queste belle sorprese, i doni della grazia di cui sto parlando, e che ci arrivano inaspettatamente come scoperte di comunione oltre i confini istituzionali.
La Comunità di Taizé, trattando del percorso di frère Roger, indica da parte sua un’intenzione esattamente analoga a quella che guidava sia i miei colloqui con don Emanuele Bargellini, già Priore Generale a Camaldoli, sia il processo che abbiamo sviluppato insieme, in consultazione con le autorità ecclesiastiche interessate, cercando con difficoltà, proprio perché era un percorso nuovo, adeguate forme di espressione. Ho dato testimonianza pubblica di questo processo durante la Liturgia della mia accoglienza nella Chiesa Cattolica che avvenne all’Eremo di Camaldoli nel 2000, dicendo che non era la celebrazione di una “conversione”, bensì di una decisione di abbracciare e vivere una comunione più piena, “una cittadinanza cristiana che si realizza tramite un’appartenenza sempre più ampia”, senza rompere la comunione con la Chiesa Anglicana o rinunciare alle mie origini o realtà attuale come presbitero di quella Chiesa, e conforme, appunto, all’impegno del monachesimo di essere segno di quella unità che resta oltre ogni nostra tradizione ed appartenenza ecclesiali. Il cammino monastico quindi mi augurò, e mi offre, la possibilità che ciò che arriva dal mio passato trovi nuova espressione e venga valorizzato, e nonostante il fatto che l’accoglienza della Chiesa Cattolica non si estende fino a riconoscere la validità del mio presbiterato.
Vivo sia la continuità sia la discontinuità di questa mia realtà non come deprivazione, ma come occasione di accogliere qualcosa in più, perché mi concede di vivere la vita monastica anche in qualità di testimonianza ecumenica, cercando una riconciliazione in me stesso.
Una realtà non cambia perché da una parte non è riconosciuta. Nella liturgia, porto la stola in quanto segno di una realtà e di una continuità ininterrotta. Poi, all’offertorio, la tolgo in segno del fatto che, a questo punto, la continuità si interrompe, e la realtà della Chiesa divisa interviene. Vivo in prima persona, dunque, non una diminuzione meramente personale, ma quella ecclesiale, perchè la dimensione sacramentale dell’eucaristia si indebolisce per la Chiesa intera in quanto il pane sull’altare non è l’unico pane, ma pane proprio.
Questo nostro scambio ecumenico fu portato avanti con Pino e l’Opera per cinque anni. La mia partecipazione si concluse nell’indomani del mio rientro in Australia, ma essa rimane per me un ricordo vivo e fa parte del retroterra del mio percorso personale e identità attuale.
Vorrei concludere con la preghiera pronunciata dal Papa Giovanni Paolo II durante la Liturgia ecumenica, quando fu ricevuto nella cattedrale di Canterbury in occasione della sua visita storica in Inghilterra nel 1982:
O Cristo,
tutto ciò che oggi ha fatto parte del nostro incontro
possa esser nato dallo Spirito di verità
e possa esser reso fecondo dall’amore.
Amen!
Padre Peter Hughes