Cattolici e politica: criteri per una nuova stagione

Incontro con Guido Formigoni
 
Negli ultimi mesi appare insistito il richiamo all’esigenza di nuovi e coerenti impegni in politica di laici cattolici. Ha cominciato papa Benedetto XVI a Cagliari nel settembre del 2008, parlando di «una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». La tesi è stata ripresa più volte in sede Cei dal cardinal Bagnasco: da più parti si parla di una «ripresa», di un nuovo inizio possibile. Insomma, a quindici anni giusti dalla certificazione gerarchica della fine dell’unita politica dei cattolici (si ricordi l’intervento di papa Giovanni Paolo II al convegno ecclesiale di Palermo, succeduto all’ultima e decisiva scissione del Partito popolare italiano), sembrerebbe di sentire nell’aria una gran voglia di chiudere una parentesi. Corre il giudizio su un sostanziale fallimento di questa stagione, caratterizzata da confusione, smarrimento, incertezza e alla fine perdita di «rilevanza» (parola chiave più volte citata) per i cattolici nella politica italiana. Il richiamo rischia però di restare singolarmente vago e astratto, se non accompagnato da qualche scelta coerente. L’unica cosa certa e che sembra avvertirsi a livello di base pastorale un certo rilancio delle esperienze di formazione all’impegno sociale e politico che dopo la stagione forte degli anni ’80 sembravano essere progressivamente messe ai margini. Un po’ poco, però. Quindi, qualche ragionamento di metodo non sembrerà ininfluente per accompagnare l’accorato appello che ci viene dai vertici ecclesiali.
1. Ci vuole un ripensamento sul passato.
Cioè proprio quello che è mancato nel 1995. Si e cambiata strategia di vertice senza un processo di accurata verifica di quello che era successo. Cioè dell’esaurimento della lunga stagione della prevalente unità dei cattolici italiani nella Dc. Occorre sedimentare un giudizio maturo su quella lunga parabola, che esca da giustificazionismi apologetici e da polemiche astiose (cosa che non sembra ancora facile). Ma soprattutto occorre indagare sul motivo della conclusione di quella storia, uscendo dai luoghi comuni sui complotti dei magistrati cattivi o sulle debolezze di singoli protagonisti. La crisi della Dc era già in corso da molti anni. E per capire la crisi proporrei di ragionare soprattutto su due elementi. In primo luogo, il fatto che la sintesi ideologica e programmatica della Dc era per molti versi superata dai fatti, in parte perché realizzata e positivamente divenuta patrimonio comune della democrazia, in parte perché ridotta a incoerente appello a un discorso valoriale astratto (si pensi alla retorica sulla famiglia, cui non seguivano provvedimenti coerenti). In secondo luogo, il motivo per cui – di fronte all’evoluzione bipolare della democrazia italiana, coerente a schemi europei -le ragioni del convergere dei cattolici si siano manifestate cosi deboli, tanto da creare una dinamica centrifuga per cui i pezzi del partito si sono dislocati su posizioni contrapposte.

  1. Ci vuole unattitudine alla coerenza nella liber

La coerenza tra la fede e le opere è fondamentale anche in politica. Il rischio del «secolarismo», cioè del cedimento verso «il mondo» che renda irrilevante la fede è uno degli ostacoli strutturali del cristiano nella storia. Il cristiano deve sempre trovare nella coscienza le ragioni della propria coerenza con la figura di Cristo Signore della vita e della storia (non con una ideologia, quindi, un discorso astratto). La coerenza è anzitutto questione di virtù vissuta, più che di adesione a uno schema di pensiero. Ma, d’altra parte, la coerenza non po’ essere intesa come semplice attitudine alla ripetizione delle posizioni di principio espresse dal magistero 0 dalla dottrina sociale della Chiesa. Tale dottrina, lo ha bene espresso papa Giovanni Paolo II, è un aspetto della teologia morale, e una riflessione alla luce del Vangelo che discrimina alcuni principi essenziali di una presenza nella storia. Ma il compito politico inizia precisamente quando questo patrimonio finisce. Si tratta infatti di dare ai «valori non negoziabili» elencati nei classici richiami magisteriali uno sviluppo e una concretizzazione che li rendano passibili di traduzione istituzionale (perché non basta la coerenza personale ma occorre mutare lentamente le istituzioni collettive alla luce del «dover essere» che i valori richiamano) e di costruzione di un consenso democratico nell’agone politico (perché si può anche talvolta ricorrere alla mera testimonianza, ma la logica dell’azione politica chiede di cercare in primo luogo l’ efficacia del «bene possibile» concretamente raggiungibile). E per compiere fino in fondo questa percorso ci vuole libertà di sperimentazione e di ricerca, il contrario della irreggimentazione delle truppe cattoliche su alcune posizioni genericamente convergenti.

  1.  Ci vogliono luoghi di mediazione culturale

Insomma, torna l’importanza della «mediazione» nella storia dei valori da raggiungere. In questi ultimi anni non si è badato molto a questa esigenza. Di fronte alla «diaspora» politica dei cattolici, la gerarchia si e intestata di fatto il compito di guidare l’unita sui valori essenziali (cosa sacrosanta), ma si e anche spinta essa stessa a compiere mediazioni legislative di alcuni valori (cosa meno fisiologica, e anzi un poco rischiosa). Si pensi alla questione della fecondazione assistita: la legge 40 difesa dalla presidenza della Cei era una mediazione tra le tante possibili. Il che ha pericolosamente esposto in pubblico la gerarchia, ha creato contraccolpi e accuse di clericalismo di ritorno, ha anche mortificato il ruolo dei laici cattolici in politica. Occorre invece moltiplicare i luoghi dove si costruisca in modo collettivo, corale, partecipato, una attitudine al «pensare politicamente», come diceva Giuseppe Lazzati. Senza confondere quello che è libera ricerca e capacità di correre i propri rischi sulle questioni opinabili (che in politica sono molte!) con il «relativismo». Dove sono questi spazi? Riviste, centri culturali, università, fondazioni? Tutto è stato accentrato nel cosiddetto «progetto culturale» cristianamente ispirato, che però ha avuto il limite di essere troppo centralizzato. Del resto se sul «quotidiano dei cattolici italiani», cioè «Avvenire», si sente sistematicamente una voce sola, come si fa a percorrere le strade del confronto, del dibattito, della sana mediazione culturale?

  1. Ci vuole unanalisi sistemica della politica

In ultima analisi, poi, occorre considerare quello che si muove concretamente nello scenario politico. Per collocarsi, prendere le misure, scegliere le opzioni possibili. La politica è concretezza; tempo e spazio. Ogni scelta nuova presuppone un’analisi previa della realtà. E il sistema politico italiano viaggia da quindici anni sulla via di un bipolarismo, zoppo quanta si voglia, ricco di imperfezioni e discutibilissimo, ma altrettanto apparentemente privo di alternative reali nel breve periodo. Sicuramente siamo in una fase di ristrutturazioni delicate della destra politica (e parzialmente anche della sinistra). Dove si collocherebbe la nuova stagione dell’impegno cattolico? Non si può illudersi con vaghi discorsi sulla critica dell’attuale schema bipolare e sulla necessità di risuscitare un qualche «centro» politico, di poter modificare magicamente le cose. Non è detto che si debba assecondare senz’altro la tendenza della storia, ma per contrastarla occorre esserne lucidamente consapevoli e mettere in campo pazienza, creatività, discernimento, risorse organizzative e di comunicazione. Tutto questa va pazientemente discusso, non si può dare per ovvio, se si vuole che la retorica della «ripresa» di una nuova generazione di cattolici in politica abbia qualche senso.
Prospettive 134,
4° trimestre 2010